Alzi la mano chi, assistendo a una partita del cosiddetto calcio moderno, non ha mai rimpianto quei giocatori che si vedevano molto più frequentemente fino a qualche anno fa. Quelli dotati del dono divino del dribbling, capaci di saltare l’uomo e scombinare tutte le strategie difensive degli avversari. In un calcio sempre più fisico, questi poeti del pallone andrebbero ormai tutelati dal WWF, prima che si estinguano del tutto sotto i colpi di rigidi schemi e ingrati compiti tattici. Salvatore Cascella, cristallino talento del bienno spallino ’75/’77 nella serie cadetta, appartiene a quella razza, e chi l’ha visto all’opera ha ancora negli occhi le sue magie da funambolo, cui abbinava uno stile di vita in perfetto cliché “genio e sregolatezza”.
Il giornalista Paolo Negri, tuo grande amico ed estimatore, ti ha dedicato un capitolo del suo libro “La mia Spal”, definendoti un giocatore di confine, perché hai rappresentato l’ultima frontiera tra il calcio beat e romantico e la sua successiva evoluzione. Ti riconosci in questa definizione?
“Ora non si supera più quel confine: è tutto confinato negli schemi. Prima si giocava un altro calcio, adesso è più schematico e tattico. Prima si era più bravi tecnicamente; ora, dopo cinque minuti, spengo la partita in tv. Già allora si iniziava a fare un calcio più atletico. Anche quando andai giovanissimo a fare il provino col Torino, dove rimasi un anno, cercavano ragazzi col fisico possente, ma per me il calcio è tecnica. La gente non deve vedere solo correre, ma deve vedere uno spettacolo”.
Qual era, e qual è, per te l’essenza del calcio?
“Divertirsi, saltare l’avversario, saltarlo ancora, ma molti allenatori s’incazzano per quello. Io una volta, andando a dare una mano in difesa, feci un tunnel all’attaccante avversario…”.
Credi che possa esserci un’inversione di tendenza, in futuro, nel modo di giocare?
“Non si torna indietro”.
C’è qualche giocatore di oggi che ti somiglia?
“Attualmente non credo ci siano giocatori che mi ricordano. Non vedo nessuno. Oggi, se un giocatore salta l’avversario, col gioco a zona fa la differenza, ma non ce ne sono nemmeno in serie A. Messi ne salta quanti ne vuole, ma, togliendo lui, ce ne sono pochi al mondo, mentre ai miei tempi ce n’erano un sacco”.
Tutti quelli che ti hanno visto giocare concordano nel dire che avresti potuto toccare livelli più alti nella tua carriera. Perchè non è stato così?
“Al momento di scendere in campo mi riusciva tutto, quello che mi controllava non esisteva, anche se era un difensore di serie A. Gianni Corelli, grande spallino che fu anche mio allenatore al Barletta, diceva che avevo le movenze di Pelé, e Paolo Mazza gli disse di avere il rammarico di non avermi visto giocare in Nazionale. Sono testimonianze che fanno piacere, ma la vita calcistica di un giocatore è diversa. Non avevo la testa per fare il professionista, mi sentivo bravo e per me era scontato tutto. Non prendevo seriamente le cose, la sicurezza che avevo di arrivare ai livelli più alti poteva essere un pregio o un difetto, ma non mi sento defraudato di niente. Ho giocato e conosciuto un sacco di gente, e ho ancora tanti amici nel mondo del calcio. Quando incontro qualche ex compagno, per loro sono stato un grandissimo giocatore. Ti racconto questo episodio. Tanti anni fa andai nell’hotel dove si teneva il calciomercato insieme con un amico di Milano, che rimase stupito perché tutti mi conoscevano. Poi incontrai Ranzani e si formò un gruppetto di direttori sportivi. Ranzani chiese a uno di loro, di cui non ricordo il nome, se mi conosceva, e lui esclamò: “Mamma mia, il giocatore che più guardavo in giro!”.
Fu proprio Ranzani a spingerti verso Ferrara.
“A Benevento giocava con me. Da ferrarese, relazionava a Mazza (lo seppi dopo). Io avevo fatto un campionato stupendo. Allora non succedeva che un presidente ti chiamasse per chiederti dove volevi andare, ma quello del Benevento lo fece, e mi disse: ”Ci sono un sacco di richieste, ma noi abbiamo preso in considerazione due squadre: Napoli e Spal. Vorrei che scegliessi tu”. Il Napoli era in serie A, mentre la Spal in B. Pensai che a Napoli sarei stato chiuso da Altafini, Sivori, e non volevo fare panchina, così scelsi la Spal, e non mi sono pentito per niente”.
Che ricordo hai dei due anni trascorsi a Ferrara?
“Ferrara mi è rimasta nel cuore. Ho passato due anni stupendi, anche se nel secondo siamo retrocessi. E’ una città che amo veramente per la bellezza, la gente, la dimensione. Non so adesso, ma quando giocavo io la gente e la Spal s’identificavano, era una famiglia e tu ne facevi parte”.
C’è un aneddoto curioso legato al giorno del tuo arrivo a Ferrara.
“Di solito sono un tipo puntuale, quel giorno ero emozionato e arrivai molto presto, quando mancavano ancora tre ore all’inizio del raduno. Decisi di dormire nella mia Lancia Fulvia in una stradina vicino al centro. Il primo impatto fu completamente diverso dalla realtà da cui venivo: la città bellissima, le interviste coi giornalisti, era tutto nuovo e tutto fantastico”.
Com’era il pubblico ferrarese?
“Non succede da nessuna parte che una squadra retroceda e ti vengano a consolare. Alla fine della seconda stagione, dopo la partita che segnò appunto la nostra retrocessione, quando uscii dallo stadio i tifosi mi vennero incontro dicendomi: “Dai Salvatore, non te la prendere, è successo”! Al Sud non ti lasciano uscire, ma non è che se fai casino uno s’impegna di più perché è minacciato! Non ci credo”.
Il primo anno, invece, fu esaltante. Sfioraste addirittura la serie A chiudendo settimi, e il tuo inizio di stagione fu travolgente, con quella che fu probabilmente la tua miglior partita, a San Siro contro il Milan in Coppa Italia. Come andò quel giorno?
“Dopo il ritiro estivo, non vedevo l’ora di giocare contro il Milan e il più grande giocatore non solo italiano: Rivera. Quel giorno feci sballare tutti. Giocavo contro Sabadini, il terzino della Nazionale, ma per me non esisteva: infatti non mi vedeva mai! Qualche tempo dopo quella partita, andammo a giocare in campionato a Catania. Scendendo nella hall dell’albergo la domenica mattina, vidi che i miei compagni ridevano leggendo la Gazzetta dello Sport: in prima pagina c’era un servizio sul Milan del futuro, e gli ultimi due nomi della formazione dell’anno seguente erano Rivera e Cascella”.
Perché poi quel trasferimento non si concretizzò?
“Allora non era come adesso. Tra società e società c’erano contatti che non sapevamo. Verso fine anno ebbi dei problemi a una caviglia, e giocai con delle infiltrazioni anche l’anno dopo. Alcuni dirigenti dicevano che facevo finta, mi mandarono a una visita a Bologna, ma non capivano cosa fosse. Solo anni dopo, a Bisceglie, un ortopedico scoprì che avevo un tendine accavallato, che m’impediva persino di camminare bene”.
Perché il secondo anno non riusciste a ripetere l’annata precedente?
“Non c’era più il gruppo dell’anno prima, sia come spogliatoio sia come rosa. Ad esempio, Pezzato era andato via in cambio di Donati. Non servono i soldi per fare grande una squadra, se compri i migliori e poi non vanno d’accordo tra loro e non hai uno staff. Una squadra va avanti se tutti sono amici, se c’è un gruppo di persone con cui esci. Ho riscontrato questa cosa nel calcio”.
Quello fu anche l’anno che segnò la fine dell’èra di Mazza, con la sua estromissione da parte di Mazzanti e Rossatti.
“E segnò anche la fine della Spal. Con Mazza non si retrocedeva, era troppo navigato. Non fecero fuori lui, ma la Spal. Il cambio di presidenza fu traumatico, non c’era una linea guida. Tre, quattro allenatori cambiati: con Mazza non era mai successo. Lui aveva scoperto i più grandi giocatori del calcio italiano, e qualcosa ne capiva”.
Ci fu un grande tourbillon di allenatori dopo l’esonero di Guido Capello.
“Con Capello non andavo d’accordo. Volevo andare via, poi giocammo a Vicenza, dove pareggiammo 1-1 con un mio gol alla Maradona. Dribblai tutti partendo da metà campo fino ad andare in porta. Paina mi disse: “Ma tu sei scemo? Fai questi gol e vuoi andare via”? Mazza ci teneva alla squadra, e non mi cedette. Poi, a metà campionato, mandarono via lui”.
Poi fu la volta della strana troika Ballico-Bugatti-Ottavio Bianchi, che passò per la prima volta dal campo alla panchina.
“Non vorrei mai essere stato professionista come Bianchi. Era schematico, voleva imporre le cose, vedeva solo le sue e basta, senza fronzoli. Se volevi parlare con lui, non potevi deviare, ma dovevi farlo seriamente. Ha fatto una grande carriera, vincendo anche lo scudetto col Napoli, ma l’ha vinto con Maradona!”.
Ricordo che quell’anno Rocco fu a un passo dall’allenare la Spal.
“Rocco doveva venire. Giocavamo a Pescara, e venne invitato da Mazza. Alla fine del primo tempo entrò negli spogliatoi a darci disposizioni. A me disse: “Ehi, moro! Sei bravo tecnicamente, ma dai la palla!”. Poi venne richiamato dal Milan, sennò rimaneva a Ferrara”.
Che accoppiata sarebbe stata quella del paron Rocco col drago Mazza!
“Eh, sì! Stiamo parlando di due che hanno fatto la storia del calcio”.
E invece arrivò Suarez.
“Suarez era fortissimo, simpaticissimo. Io rientravo da un infortunio, e un giorno, dopo l’allenamento, rimanemmo io e lui sul campo. Mi lanciava la palla col computer sui piedi, e mi diceva: “Mi fai incazzare! Col talento che hai, fai saltare saltare tutti gli schemi”.
Ti nomino una serie di tuoi compagni in quei due anni spallini: dai una definizione per ciascuno. Cominciamo da Boldrini.
“Una persona troppo gentile. Una delle persone più belle del calcio”.
Paina.
“Poteva sembrare montato, anche perché aveva giocato nel Milan, ma, conoscendolo, si capiva che non era così. Tecnicamente era bravissimo, intelligente, sapeva chi frequentare e chi no in società e tra i giornalisti”.
Gelli.
“Un corazziere dalla grande potenza fisica. Un bravo ragazzo”.
Grosso.
“L’avvocato. Una persona seria. Dalla C alla B sentivi la differenza di comportamento tra i giocatori, e lui era un esempio”.
Aristei.
“Eravamo io e lui i nuovi acquisti della Spal il primo anno. Non apparteneva a clan, ed era una persona seria”.
Fasolato.
“Un maratoneta”.
Pezzato.
“Il gol. Mettevo la palla in mezzo e arrivava lui di testa. Un attaccante incredibile”.
Lievore.
“Bel ragazzo, mai uno screzio con qualcuno, bravissimo e simpaticissimo”.
Manfrin.
“E’ stata la prima persona che ho conosciuto quando sono arrivato a Ferrara. Stavo quasi sempre con lui. Una mezzala pura, destra e sinistra. Non aveva scatto, ma era intelligente e aveva piedi fantastici”.
Reggiani.
“Sempre allegro, di compagnia”.
Donati.
“Tecnicamente non eccelso, ma gran lavoratore e dotato di gran corsa”.
Prini.
“Grande giocatore, fortissimo”.
Gibellini.
“Non mi piaceva molto, ma ha fatto tantissimi gol, e per questo ha fatto una buonissima carriera”.
Tassara.
“A San Siro, contro il Milan, l’allenatore gli disse: “Tu marchi Rivera: dove va lui, vai tu”! Non lo beccava mai…”.
L’anno dopo, invece che al Milan, sei passato al Varese.
“Con l’allenatore, Maroso, non andavo d’accordo. Abitavo a Milano, e un giorno andai a San Siro a vedere Milan-Ascoli. In tribuna incontrai un mio ex commilitone, Calloni (lo “sciagurato Egidio” di breriana memoria: ndr), che giocava centravanti nel Milan, ma quel giorno era infortunato. Al bar dello stadio, durante l’intervallo, il presidente del Varese, Borghi, quello dell’Indesit, che sembrava in procinto di acquistare il Milan, si avvicinò a noi e, posandoci le mani sulle spalle, ci disse: “Eccoli qua i miei due gioielli per l’anno prossimo”. Ma ancora una volta non se ne fece nulla”.
A Ferrara giocavi sulla fascia, ma quello dell’ala non era il tuo ruolo preferito.
“Volevo sempre la palla tra i piedi, e i più bei campionati li ho giocati da mezzala a Barletta, con Corelli allenatore. Gli dissi io che volevo giocare in quel ruolo. Capivo che mi stimava quando mi diceva: “Salvatore, tu fai quello che vuoi”. Mentre agli altri diceva: “Fai questo, fai quello…”.
Che persona era Corelli?
“Una persona diretta, un tipico ferrarese bonaccione, ma che non gli andava di essere preso in giro. Umanamente era il massimo”.
So che c’è un episodio legato a una bella ragazza russa e a Mazza. Ti va di raccontarlo?
“Abitavo in Via Cortevecchia, sopra Neno (storico negozio ferrarese di abbigliamento: ndr). Andavo a pranzo al ristorante Centrale, e poi non mi andava di tornare a casa. Un giorno presi la macchina e andai a fare un giro per il corso principale (Corso Martiri della Libertà, allora ancora aperto alle auto: ndr). Vidi una bella ragazza, accostai, ci sorridemmo e facemmo amicizia. Era russa e si chiamava Ludmilla. Un giorno venne al Centro di Via Copparo durante la partita del giovedì. C’erano dirigenti, giornalisti, tifosi, e alla fine della partita mi corse incontro abbracciandomi, senza sapere che non si potevano fare queste cose. Dopo due giorni, Mazza mi chiamò e mi disse: “Ma come devo fare con te? Neanche Vendrame mi ha combinato tutti i casini che mi combini tu”. Poi però aggiunse: “Ma come sono le russe”?
E tu come rispondesti?
“Non risposi. Mazza metteva soggezione, era troppo importante, era nella storia del calcio. Prima di venire a Ferrara, Ranzani mi disse: “Quando ti chiama il Presidente per il contratto, sarà incazzato al massimo: non metterti a discutere”.
Ma eri già della Spal e ancora non avevi il contratto?
“Sì, allora prima ti vendevano, e poi ti mettevi d’accordo durante il ritiro. Io ero intimorito. Ranzani mi disse anche: “Non ti lascerà parlare”. Mazza mi propose diciotto milioni per dieci mesi. Se consideri che a Benevento prendevo tre milioni e duecentomila lire per otto mesi, quella era una cifra al di là di quanto speravo e immaginavo. Rimasi di stucco. Mi ha sempre voluto bene, se diceva qualcosa era sempre per il mio bene, mentre se qualcuno non gli interessava, non se lo filava”.
Quando giocavi avevi i capelli lunghi, vestivi sportivo e avevi delle auto favolose. Sei cambiato da allora?
“I capelli sono sempre lunghi, ho lo stesso modo di vestire e di fare le cose, e una Mercedes 200 CD”.
Di che cosa ti occupi ora?
“Ho uno stabilimento balneare a Margherita di Savoia. Amo il mare, i miei avevano questa attività, e ho voluto continuarla. E’ lo stabilimento più bello di tutti, in stile caraibico. D’estate lavoro e d’inverno viaggio”.
Che posti hai visitato?
“Paesi tropicali, Venezuela, Brasile, Cuba, St. Martin, Miami, Messico, Africa, Thailandia…”.
Sei sposato?
“Chi? Sei impazzito? E’ successo solo una volta, poi non è andata bene. Viaggio con degli amici. Non ho figli, e non ho rimpianti. Sono stato fortunato a fare le due cose che mi sono sempre piaciute di più: giocare a calcio e stare al sole, sia sul lavoro sia in vacanza”.
Non ti sei dimenticato una terza cosa?
“Ah ah! Non sono stato un latin lover: sono voci esagerate…”.