Franco Pezzato è nella hall of fame biancazzurra per un’infinità di buone ragioni. Le sue ottantuno reti ne fanno il più grande cannoniere spallino del dopoguerra, e i dieci campionati disputati a Ferrara nell’arco di un ventennio stanno a suggellare l’infinito rapporto d’amore con la città e i colori della sua squadra. Gli appellativi di Cina (per via degli occhi dal taglio orientale) e di Volpino (per via dell’astuzia sotto rete) sono solo alcune testimonianze dell’affetto che lega i tifosi ferraresi a uno dei giocatori più amati di sempre, per quello che ha dato in campo e per il comportamento tenuto fuori.
Cosa significano la Spal e Ferrara per lei?
“La Spal è la mia squadra, e quando si dice Spal si dice Ferrara. Vi ho giocato dieci anni, cominciando a diciassette e smettendo a trentasette, quindi sia nella gioventù sia nella mia maturazione di uomo, e mi sono sempre trovato bene. A Ferrara si vive bene, e la Spal è la nostra famiglia, mia e di quelli che hanno giocato con me”.
Che cosa ha reso possibile la creazione di quell’ambiente così irripetibile?
“Mazza era la persona con le caratteristiche per fare famiglia. Aveva una personalità spiccatissima, teneva calciatori e allenatori lontani, ma quando avevi bisogno c’era sempre. Dettava le regole, soprattutto ai ragazzini nuovi, ma anche alla prima squadra, e pure lui le rispettava. C’era rispetto tra società e giocatori; tra compagni di squadra si faceva amicizia grazie anche alla sicurezza di essere un gruppo, una famiglia appunto, e si era fratelli”.
In cosa consistevano le regole di Mazza?
“Prevedevano un certo stile di vita in campo e fuori, che portava anche a migliorare il rendimento. Al giovedì in sede veniva affisso il comunicato con le multe ai giocatori che avevano tenuto un comportamento sleale la domenica prima in campo, e di sera non si poteva rientrare a casa dopo le dieci e mezza. La vita attuale dei calciatori, noi non l’abbiamo mai fatta”.
C’è un episodio che rende bene l’idea del suo rapporto con Mazza?
“Alla fine del primo anno mi disse: “Vieni a trovarmi”, invitandomi a passare dal suo ufficio in Via Borgoleoni per salutarlo prima delle vacanze estive. Andai, e lui mi disse: “Bravo, mi raccomando, a casa e metti su qualche chilo. Prima passa in sede a ritirare cinquantamila lire, ma vai in montagna”. Era il suo modo di dimostrare affetto, ma non lo faceva vedere”.
Con quella cifra andò veramente in montagna?
“Certo. Con quella somma riuscii a pagarmi quindici giorni di vacanza all’hotel La Posta di Sappada”.
E riuscì a mettere su qualche chilo?
“Mah… Era una questione di costituzione fisica. Tre o quattro chili in più magari potevano aiutare, e nel corso degli anni qualche chilo l’ho preso, ma non ho mai avuto grossi problemi. Il cervello è più importante di qualche chilo. Madre natura mi ha dotato di velocità, scatto, e rapidità soprattutto di cervello. Gli attaccanti andavano di moda grandi e grossi, e i difensori menavano, ma io reggevo il confronto con la rapidità. Se usi bene il cervello, anticipi gli altri. Devi vedere il gioco, pensare prima del tuo avversario e capire prima di lui cosa devi fare. Il colpo di testa era una mia dote naturale, che tenevo molto a perfezionare. Il tempo determina chi va a prenderla più in alto e ci riuscivo nonostante la mia statura (1,68 m: ndr). Devi prendere la palla quando la parabola comincia ad abbassarsi: quello è il tempo. Quando facevo gol di testa, per me era come se ne avessi fatti due. Vicino a me, comunque, avevo gente esemplare, che mi metteva nelle migliori condizioni di segnare”.
Un nome su tutti: Donati.
“Sì, io ero la sua fortuna, e viceversa. Con lui c’era un’intesa straordinaria. Quando andava giù sulla destra, o anche sulla sinistra, e arrivava a sette, otto metri dal fondo, sapevo già cos’avrebbe fatto. Mi sono trovato benissimo con altri grandi giocatori, come Mongardi, Gibellini, Manfrin… ma Donati per me è sempre stato un fratello”.
Qual è il vostro rapporto?
“L’ho conosciuto nel ’67 a Empoli, dove abbiamo giocato insieme due anni, continuando poi alla Spal. Sono stato suo testimone di nozze quando si è sposato a Ferrara, ancora ci sentiamo ogni settimana e andiamo in vacanza insieme. Se c’è qualche problema ne parliamo, anche se non abbiamo mai avuto lo stesso carattere. Lui da ragazzo era fumantino e vedeva tutto bianco o nero, mentre con me si poteva parlare. Non è facile trovare una persona così nella vita, e auguro a tutti di trovarla. Tra compagni di squadra eravamo tutti amici, molto legati tra di noi, ma poi, quando si deve raccontare cose intime, già uno è tanto, almeno per me. Ormai siamo entrambi in età matura, e rivivere i ricordi aiuta a vivere, anche se non parliamo solo del passato”.
Prima ha citato Mongardi.
“Lucio era un mio grande amico. Era una persona disponibile per tutti, trovava sempre il tempo per parlare con te se avevi bisogno. Anche quando lavorava come osservatore per il Parma, ci si vedeva spesso. Aveva le caratteristiche del leader, la personalità in campo e fuori, l’approccio con gli altri, e infatti il presidente gli aveva dato la fascia di capitano. Purtroppo è andato via troppo presto, e quando uno se ne va così giovane è un dramma. Per noi rimane sempre il capitano della nostra Spal”.
Qualche anno fa ci ha fatto passare un bello spavento anche lei.
“Eh sì, era la partita del cuore, e io ci ho dato il cuore! (ride) Era il 24 aprile 2004, faceva tanto caldo, e devo ringraziare Ennio Guirrini (storico massaggiatore biancazzurro: ndr) se ha capito subito quello che stava succedendo e mi ha dato un aiuto vitale. Nello spogliatoio ha visto che sudavo molto e ha chiamato l’ambulanza che mi ha portato in ospedale al Sant’Anna, dove mi hanno operato d’urgenza, e in mezz’ora mi hanno messo a posto”.
Che problema aveva avuto il cuore?
“Una coronaria per lo sforzo si era chiusa. Mi hanno spiegato che, se una situazione così dura poco, non è niente, ma devi essere bravo a capire cosa sta succedendo entro un’ora, un’ora e mezza, e il cuore non va in sofferenza. Ennio, insieme col dottor Tilli, ha capito e mi ha tranquillizzato”.
A parte quell’occasione, qual è stata l’importanza di Gurrini per la Spal?
“Ennio era il capo della casa, dello spogliatoio, disponibile e sensibile. Era sempre attento a esserci e non esserci, perché nello spogliatoio bisogna sapersi comportare. Sa tutto di noi, ha visto tutto, anche le cose meno belle”.
Com’è cambiata la sua vita dopo quel problema al cuore?
“Le scarpette non le ho più viste, sono in garage. Vado a camminare, corro anche, ma devo stare attento a non far salire troppo i battiti, e per quello non posso più giocare. Vado anche poco a vedere le partite. Quando ho avuto quel problema, mi ero chiamato fuori dal giro da un anno e mezzo (prima allenavo nelle giovanili), ma pensavo prima o poi di rientrare. Da quel giorno, invece, ho detto basta”.
Torniamo indietro al 1963, al momento del suo arrivo a Ferrara.
“Vennero a vedermi degli osservatori mentre giocavo in Promozione nel Mira, la squadra del mio paese (tredici gol in venticinque partite a sedici anni: ndr), e mi convocarono per un provino a Francolino. Lì c’era Mazza, e io provai con altri cinque o sei ragazzi. A fine partita venni convocato in sede insieme coi miei dirigenti, e Mazza disse: “Mi va bene questo ragazzo esile”.
Dove ha abitato a Ferrara?
“All’inizio in Via de’ Romei, in quello che era il palazzo della Spal, insieme con otto o nove compagni, tutti giovani come me. Tra gli altri, c’erano Zanier, Moretti, Peressin… tutti friulani tranne Bartoletti, che era toscano. In seguito, ho abitato più vicino allo stadio, in una camera presso una famiglia (allora si usava così). Infine, quando sono tornato da sposato, ho abitato in Via Bagaro”.
Ha citato alcuni dei compagni coi quali vinse il campionato italiano Primavera sotto la guida di Gibì Fabbri.
“Quello fu un periodo indimenticabile. Fabbri è stato il primo allenatore a farmi vincere qualcosa. La sua diversità era la gioia di giocare, perché anche a lui piaceva scendere in campo. Ci diceva sempre: “Giocare a calcio è anche gioia”. In quel periodo si correva tanto e si vedeva poco la palla, ma lui diceva che per imparare a giocare a calcio bisogna adoperare il pallone. Ci portava nella sua campagna, dove anche adesso vado a festeggiare i suoi compleanni. E’ stato un grande maestro di calcio e di vita, e a noi ragazzini ha insegnato che nella vita di tutti i giorni bisogna essere un po’ spavaldi, capendo che eravamo da soli e avevamo bisogno di compagnia”.
Abbiamo parlato di tanti grandi personaggi, ma ne manca uno in particolare…
“Caciagli. Lui è stato la mia fortuna. Dopo aver lasciato la Spal la prima volta, avevo giocato a Empoli, Foggia, Prato e Salerno, ma erano state avventure non proprio eccezionali. Sono tornato a Ferrara nel novembre del 1972, quando la squadra era stata affidata a Caciagli. Le prime due domeniche ha visto come giocava la squadra, poi ha messo al posto giusto alcune pedine. Io ero arrivato insieme con Goffi, ha spostato Croci da mediano a terzino, Rinero è stato reintegrato e ha fatto giocare Romano, che era un ragazzino. Ha visto dove mettere gli uomini giusti, ed è stato l’artefice principale della promozione in B dopo una rincorsa magnifica. Grazie a lui la squadra giocava da sola, era una meraviglia. Spesso capitava di vincere 2-0 già dopo pochi minuti”.
Qual è il ricordo più nitido di quella promozione?
“Senz’altro il ritorno da Olbia, dopo la coda interminabile di auto dall’aeroporto di Bologna. Non ho mai visto la piazza della Cattedrale così accogliente, piena, euforica: una pagina indelebile, ci saranno state diecimila persone. Anche Mazza credo abbia toccato quel giorno uno dei momenti più felici della sua vita, perché rincorreva da anni il salto di categoria e non era capace di risalire. Finalmente era riuscito a riportare la Spal dove doveva stare”.
Cos’altro può dire di Caciagli?
“Il suo carattere toscano era tutto d’un pezzo, aveva le parole giuste e usava i toni giusti. Si faceva rispettare da noi e dal Commendator Mazza, e grazie a questo riusciva a ottenere i risultati. Qualche anno dopo l’ho ritrovato a Padova, dove avevano mandato via Manni. I dirigenti mi chiesero com’era Caciagli, e io risposi: “Prendetelo subito!”. Mi dava fiducia, mi faceva sentire tranquillo e sereno, e lui si sentiva tranquillo con me. Pensava: “Tanto, prima o poi, un gol me lo fa”. Per un atleta, avere la fiducia dell’allenatore è il massimo, altrimenti manca la lucidità. La tensione va bene, ma ogni sette giorni c’è un esame, e c’è bisogno di tranquillità. Anche il gol te la dà, perché l’attaccante deve fare gol, altrimenti ti mettono subito in discussione e perdi lucidità, la porta si restringe sempre di più. A me capitava in certi periodi invernali”.
A causa dei campi pesanti, immagino.
“Sì, a causa del peso e dell’agilità perdevo qualcosa, perché il gioco sui campi pesanti è più lento, mentre io ero veloce e rapido. Mi accorgo che stiamo saltando da un argomento all’altro: prima stavamo parlando di Caciagli e poi siamo finiti a parlare delle mie caratteristiche di calciatore. Anzi, di ex calciatore”.
E’ proprio questo, e poi ha detto bene: calciatore, non ex. Quando uno ha giocato a calcio, rimane calciatore tutta la vita.
“Bravo. Io sono fiero di essermi sempre comportato da calciatore. Finché uno è in attività, ha il compito di fare quel mestiere bene, per rispetto di chi viene a vedere. Quando i tifosi sorridevano e applaudivano alla fine della partita, voleva dire che si erano divertiti, e mi ero divertito anch’io. Pensavo: “Oh! Anche oggi è andata bene”.
E come si rimane calciatori anche dopo aver messo le scarpette in garage?
“Anche adesso stavo mettendo le scarpe per fare un’ora di camminata. Lo stile di vita è importante. Guardando una persona si vede che stile di vita ha e cos’ha fatto. Cerco di mangiare sempre come sono stato abituato. La regola principale è portare rispetto agli altri per averlo. Alle mie figlie (Fiorella e Francesca, quest’ultima nata a Ferrara: ndr) e ai miei nipoti (Leonardo, Riccardo e l’ultima arrivata Giovanna: ndr) dico sempre: “Comportatevi così, e sarete ripagati”.
Sono un po’ le regole di Mazza.
“Sì. Ora i miei nipoti mi dicono che sono noioso, ma quando avranno venti o venticinque anni diranno: “Ah, però, mio nonno!”.
Torniamo alla sua carriera, parlando dell’ultimo periodo trascorso a Ferrara.
“Dopo quattro anni a Padova, tornai a Ferrara nel novembre 1983. Dovevo andare al Catania, dove mi voleva Di Marzio, ma poi mi chiamò il direttore sportivo della Spal, Morselli, e ci mettemmo subito d’accordo. Pensai che fosse meglio finire dove avevo cominciato. Arrivai con un ginocchio un po’ in disordine, e passai i primi due mesi non stando bene”.
Poi però segnò sei gol.
“Feci bene, ma non ero lo stesso, non avevo più quella mentalità. Avevo ancora un anno di contratto, ma alla fine di quella stagione andai da Morselli e gli dissi che avevo finito lì. Lui mi disse di pensarci una settimana, ma poi io gli riconfermai la mia decisione di smettere, prima che me lo dicessero gli altri. Pensai che fosse meglio finire in bellezza, e che fosse inutile andare a incrinare ciò che avevo fatto di bello nella mia carriera. L’unico rimpianto che ho è di essermi fermato a due gol dal primato assoluto di reti segnate con la maglia della Spal”.
Si è mai pentito di quella decisione?
“A distanza di tanto tempo, giocherei ancora un anno, prolungando il divertimento, perché per me il calcio è soprattutto quello, anche se è dura resistere alle ansie se non fai gol. L’importante nella vita, comunque, è prendere una decisione, giusta o sbagliata che sia”.
Quella era la Spal di Galeone, che in quanto a divertimento sapeva il fatto suo, sia come stile di vita, sia per come faceva giocare la squadra.
“Galeone era un po’ atipico, direi a briglia sciolta. Una brava persona con cui ci si sentiva liberi di parlare di tutto. Quell’anno, se non si perdeva a Bologna, potevamo dire la nostra fino alla fine per la promozione, e il rammarico rimane”.
Mi piacerebbe sapere qualcosa della sua Africa.
“E’ il luogo dove io sto bene. La prima volta che ci sono andato è stato il mese prima di star male con quel problema cardiaco. Non mi piaceva molto prendere l’aereo, ma mi sono fatto convincere da amici. Ho visto il luogo, la terra, i colori, e mi sono detto: “Però, bello! Torno sicuramente, mi piace”. Ho continuato ad andarci, ho visto tante altre cose, e ora passo là in Kenya due mesi e mezzo all’anno”.
Sappiamo del suo impegno con i bambini di Malindi.
“Elvio e Rina Rizzato hanno realizzato un orfanotrofio che ora ospita quaranta bambini, e hanno chiesto a un gruppo di amici, tra cui me e mia moglie Manuela, di dare una mano. Non facciamo niente di speciale. Siamo solo esseri umani che, vedendo gente in difficoltà, in particolare bambini, cerca di fare qualcosa”.
La ritrosia di Pezzato sull’argomento è palpabile. Non vorrebbe parlarne perché non vuole passare per quello che si vanta di fare del bene. Vorrebbe parlare solo di calcio, ma la storia è talmente bella e pulita che merita di essere raccontata almeno un po’, senza essere troppo invadenti ed evitando di scivolare nella facile retorica del campione benefattore.
Anche i tifosi spallini hanno contribuito con una raccolta di fondi.
“Sì, tutto è nato da un sms che avevo inviato a Nando Donati durante una serata sulla Spal di Caciagli organizzata dal gruppo Spallinati. Volevo mandare un saluto scusandomi per non essere presente, trovandomi in Kenya. Nando ha raccontato cosa stavo facendo, e gli Spallinati hanno deciso di attivarsi per raccogliere dei fondi tra i tifosi. Grazie a loro i bambini dell’orfanotrofio hanno potuto mangiare e andare a scuola per diversi mesi, e a loro va un grazie enorme”.
Adesso com’è la situazione rispetto agli inizi?
“Ora va meglio. La quantità e la varietà del cibo sono migliorate, i bambini frequentano una scuola esterna, ma le spese sono tante, anche perché il personale va pagato. La situazione è più difficile all’interno del Paese, perché nella zona vicino all’oceano è più facile che turisti portino cibo e soldi, mentre pochi si spingono nell’entroterra. Da qualche tempo cerchiamo di portare qualche aiuto in un villaggio dove non c’è una struttura con un progetto ben chiaro come a Malindi. Purtroppo non si può andare dappertutto, e ci si concentra su una o poche realtà”.
Cosa colpisce di più quando si va in quei luoghi?
“Quando vedi certe realtà, e vedi come mangiano certi bambini, per forza ti fermi. Ognuno di noi ha una propria sensibilità, ma se ti capitano questi incontri non hai nessuna difesa, ti senti in colpa e cerchi di aiutare in qualche modo. Ti viene naturale. Io vengo da una famiglia che non era agiata, e quando vedo qualcuno in difficoltà, mi sento io in difficoltà. Questi sono bambini piccoli che tendono la mano e sorridono, con un sorriso sereno che ti lascia di stucco. Va bene che insegnano loro a chiedere fin da piccoli, ma vedi che è tutto naturale”.