Spal, Foggia, Udinese, Sampdoria, Vicenza, Chievo, Roma, Palermo, Atalanta, Juventus. Cos’hanno in comune tutte queste squadre, oltre a essere tra le più rappresentative nella storia del calcio italiano? Sono le tappe più significative della carriera, da centrocampista prima e da allenatore poi, di Luigi Delneri, uno dei tanti “bocia” friulani che da Ferrara hanno spiccato il volo verso traguardi altissimi, viaggiando un po’ anche sulle ali dell’esperienza giovanile in quella piccola grande squadra dai colori del cielo.
Com’è arrivato a Ferrara?
“Mi ha scelto Mazza dopo avermi visionato durante un provino ad Aquileia, al quale partecipavano i migliori allievi della regione. Mazza era molto attento al settore giovanile, e sceglieva sempre di persona i ragazzi da prendere. Veramente era venuto per vedere un altro giocatore, Zanolla, ma poi ha preso anche me, e così siamo andati entrambi a giocare nella Spal”.
Cosa ricorda di quel giorno?
“Era il 1967, avevo diciassette anni, era un mercoledì, e io avevo appena finito il turno alla Marzotto, dove lavoravo dalle 6 alle 14”.
Che mansioni aveva in fabbrica?
“Ero capo spedizioniere. In fabbrica si producevano stoffe e tappeti, arrivavano gli ordini e io li impacchettavo”.
Era un ruolo di responsabilità, per un ragazzo così giovane.
“Io e altri ragazzi della mia età avevamo seguito un corso di tre o quattro mesi a Valdagno, uscendo dal quale si era già specializzati nei ruoli da ricoprire nelle fabbriche che la Marzotto aveva in zona”.
Come mai Mazza sceglieva spesso ragazzi friulani?
“Credo perché i friulani sono dotati di grande applicazione, costanza, testardaggine, voglia di emergere e ottenere risultati. Dal ’50 in poi si usciva dalla guerra, dalle nostre parti non era facile, e queste caratteristiche erano ancora più evidenti e importanti. I friulani sono gente molto seria, attenta, precisa, onesta, che lavora al massimo, con grande applicazione e spirito di sacrificio. La storia ha dimostrato che Mazza aveva ragione, perché in Friuli ha pescato tanti buoni giocatori, come Casarsa, Musiello, Tomasin, Reja, Capello e altri ancora. E poi, tanti che hanno giocato nella Spal, anche provenienti da altre regioni, sono diventati ottimi allenatori. Evidentemente Mazza guardava tanto alla persona e sapeva scegliere gli uomini”.
Facciamo un piccolo elenco di giocatori spallini che poi sono diventati grandi allenatori, oltre a lei, naturalmente: Bagnoli, Bigon, Capello, Reja, Bianchi, Fabbri. Li ha conosciuti tutti?
“Nomi come questi hanno fatto la storia del calcio, e da ciò si capisce l’importanza per il calcio italiano di una grande società come la Spal, dotata di una cultura sportiva fuori dal comune. Bagnoli è una persona di grande umanità e spessore. Con Capello ci conosciamo di vista: tutti sanno che è partito da Ferrara per vincere in tutto il mondo. Fabbri è stato mio allenatore a Ferrara, e maestro anche di comportamento. Bianchi mi ha allenato per un breve periodo a Trieste e c’è sempre stata stima reciproca. Con Reja siamo proprio amici di famiglia, ci siamo conosciuti a Ferrara e poi è stato uno dei miei ultimi allenatori a Gorizia, prima che smettessi di giocare e iniziassi ad allenare anch’io”.
Proprio Reja ha detto di lei che da giocatore era un trascinatore, un entusiasta, e organizzava cene per tenere su il gruppo.
“Ho bisogno di gente vicino a me che mi dia motivazioni. Non sempre ho la battuta pronta, ma credo che quando si è in tanti sia importante essere amici, e la costruzione di un rapporto può essere anche a tavola. A Ferrara abitavamo in una decina di ragazzi tutti insieme, in tre o quattro stanze, nella vecchia sede della Spal di Via de’ Romei: ricordo Palazzese, Moro, i fratelli Asnicar… Il calcio è fatto di momenti di grande applicazione, ma è anche allegria, spensieratezza, o si diventa matti. Recentemente ero alla celebrazione del centenario della nascita del paron Rocco, e mi è stato chiesto: “Cosa gli ruberebbe”? Io ho risposto: “La capacità di sdrammatizzare il calcio”. Non è facile, ma, nel mio piccolo, ho sempre cercato di assomigliargli”.
E’ vero che si sottoponeva ad allenamenti durissimi, ricoperto di vestiti pesanti e acrilici, per sudare di più e combattere la tendenza a ingrassare?
“Allora tanti giocatori usavano allenarsi con del nylon addosso per perdere peso, perché non c’erano le diete e le metodologie d’allenamento di oggi. Prima della partita ci facevano mangiare risotto per riempire lo stomaco, filetto al sangue, spinaci, puré, mentre ora gli atleti sono molto più attenti e tirati, mangiano solo carboidrati e ciò di cui ha bisogno il fisico, trasformando i chili in muscoli”.
Che ricordo ha di Mazza?
“Paron Mazza ripeteva sempre che era mio padre, perché mi aveva scelto lui. Penso che oggi ho quasi l’età sua di quando mi ha preso… Era un uomo d’onore, burbero, lottatore quando c’era da risparmiare sui contratti, ma, quello che prometteva, manteneva, ed era molto attento alle problematiche delle famiglie. Gli stipendi venivano pagati il 4 del mese: se quel giorno cadeva di domenica, non li pagava il 5, ma il 3. Aveva una grande umanità, ed è stato uno dei più grandi presidenti della storia del calcio”.
Ha un aneddoto da raccontare su di lui?
“Era la stagione 1969-70, in serie C. Lui veniva sempre al campo a vedere gli allenamenti, e tutti volevano dimostrargli che erano in forma, perché era lui che decideva chi far giocare la domenica. Longo, un attaccante, gli si avvicinò e gli disse: “Presidente, sto bene, mi sento una bomba!” Mazza, allora, in dialetto ferrarese, gli rispose di andare più in là, fuori dal campo a esplodere, e ci fu una grande risata generale. Ricordo anche che ci faceva portare le mutande lunghe di lana sotto i pantaloncini, per tenere le gambe calde e proteggere i muscoli dal freddo in mezzo alla nebbia, ed erano multe se non le portavamo. Aveva questa tendenza a curarci”.
Ma come faceva a sapere se le indossavate?
“Quando ci si cambiava negli spogliatoi, lui era sempre presente. Era una persona molto attiva, e attenta a tutti gli aspetti”.
Passiamo in rassegna le sue annate da giocatore in maglia spallina, partendo dalla prima.
“Sono arrivato nella stagione 1967-68, l’ultima della Spal in serie A, ma non ho mai giocato in prima squadra, perché ero nella Primavera. Per me, che venivo da un paese di tremila abitanti, era un sogno essere a Ferrara, nel mondo professionistico, in mezzo a gente come Bozzao, Lazzotti, Parola, Pasetti, Massei, Reif, Reja, Brenna, Cipollini, Tomasin…”.
L’anno successivo non fu certo fortunato, con un’altra retrocessione che portò la Spal in serie C.
“La retrocessione dalla A aveva scioccato l’ambiente. Io giocai una sola partita in prima squadra, perché ero ancora aggregato alla Primavera”.
Poi arrivarono tre anni in C con altrettante promozioni solo sfiorate.
“Allora non c’erano i playoff, altrimenti magari saremmo andati su. Il primo anno finimmo dietro la Massese e il secondo dietro al Genoa (per la prima volta nella sua storia in serie C: ndr) lottando fino alla fine, mentre l’ultimo anno chiudemmo al terzo posto (dietro il Del Duca Ascoli di Carletto Mazzone e il Parma: ndr). Io ormai giocavo in pianta stabile in prima squadra”.
Poi se ne andò proprio l’anno prima della promozione in B. Perché non restò a Ferrara?
“L’ultimo anno era stato complicato. Era obbligatorio uscire da quella categoria, e la Spal non ci stava riuscendo. Era giusto cambiare aria. Non ci siamo messi d’accordo su un discorso economico, così sono finito al Foggia, la Spal ha preso al mio posto Mongardi e poi anche Pezzato, ed è stato un bene per tutti, perché la Spal è stata promossa in B e il Foggia in A. Non è stata però una rottura; anzi, con Mazza il rapporto si è addirittura fortificato, dopo la mia partenza. Tutti gli anni mi mandava gli auguri di Natale cancellando dal bigliettino il titolo di commendatore, perché mi faceva gli auguri come se fosse mio padre”.
Che ricordo ha di Ferrara?
“Lì ho passato la maggior parte della mia giovinezza, ed è nata la mia prima figlia: è una città che ho nel cuore, per la quale provo affetto”.
Lei ha dichiarato che il suo desiderio è finire la carriera allenando la Spal.
“Se potessi fare qualcosa per far arrivare la Spal ai massimi livelli, lo farei”.
Ne ha seguito le recenti vicissitudini?
“Non leggo molto i giornali, ma so che è in difficoltà e mi dispiace, è un peccato. Ma non c’è nessuno a Ferrara che la compri? Una società così, con quello che fatto nel calcio italiano, con una struttura e una passione incredibili, è una cosa fantastica, e non va persa. Una volta era più facile investire nei settori giovanili, come faceva la Spal, mentre ora è più complicato, perché non ci sono gli stessi vincoli contrattuali, ma la strada da seguire per sopravvivere è quella. Dalle nostre parti è in difficoltà anche la Triestina, che per noi friulani significa tanto. Auguro alla Spal di tornare dove merita”.
Allora la vedremo prima o poi sulla panchina biancazzurra?
“Mai dire mai, speriamo”.