Roberto Rocchi è il simbolo dell’umiltà e del piacere di fare fatica per emergere nel mondo del calcio. Della rincorsa al sogno di fare il calciatore, con grinta, cuore e, soprattutto tanta passione. Che ancora oggi continua, inesorabile. Senza abbattersi, senza avere mai ricevuto regali da nessuno, l’attaccante di Acquasparta ha saputo con coraggio e convinzione prendere in mano le redini del suoi destino, rinunciando e scegliendo. Ha masticato il pane duro della provincia, si è guadagnato ogni gradino a suon di gol, è salito e sceso più volte lungo la scala del calcio, perché, come dice lui, prima tutto viene la famiglia: “Avevano bisogno di me e sono tornato a casa, giocavo la domenica e in settimana lavoravo come fa la maggior parte dei ragazzi. Non mi ha mai pesato, anzi, ero orgoglioso, a ventiquattro anni mi stavo convincendo che non avrei mai più fatto carriera e lavorare nella pizzeria dei miei mi faceva sentire utile e importante”. Sì, oltre al calcio c’è di più, molto di più: “Quando ci ritroviamo a casa siamo in dodici, forse anche tredici, so solo che siamo tutti allenatori” dice, ridendo. “E il bello è che ognuno vuole sempre avere ragione”. Nato il diciotto marzo di ventisei anni fa, il calciatore, che sino alla categoria Allievi era in forza alle “fere”, quella Ternana di cui è tifosisissimo, si lascia andare in una lunga e piacevolissima chiacchierata che, dopo l’inevitabile parentesi di sabato a Lucca, è tutto tranne che un’intervista. Il suo è un monologo che coinvolge, che parla dell’incontro recente con la Fede e di vita quotidiana, senza dimenticarsi della sorellina nata due anni e mezzo fa, la sua prima tifosa: “Diciamo che con lei mi sto allenando a fare il papà: è l’unica che riesce sempre a strapparmi un sorriso anche quando tutto va male, credo verrà allo stadio, forse già domenica, per questo spero di giocare per dedicarle un gol”. Di questo ragazzo colpisce la genuinità contraddistinta da un entusiasmo generale che ha voglia di raccontare e raccontarsi, che ironizza sulla sua emotività, il vero cruccio del suo carattere, ma che, nonostante tutto, ha tanta voglia di buttarla dentro sotto la “Campione”, magari già domenica contro il Forcoli: “Altrimenti i tifosi si cominceranno a chiedere se sono uno stopper o un’attaccante!”. Ma non fatelo sentire un ragazzo speciale, per carità: “La mia è una vita normalissima”, dice. E forse proprio per questo, aggiungiamo noi, ha qualcosa in più. Che vale la pena di scoprire.
La parola crisi la lasciamo nel cassetto, almeno per ora. Ma dobbiamo tornare sulle ultime due partite: con la Fortis e a Lucca non è stata una grande Spal, anzi. Con queste “montagne russe” si fa fatica a pensare in grande.
“La domenica non è stata tutta da buttare: il Mezzolara ha perso, la Pistoiese ha pareggiato e anche il Piacenza non è andato oltre il pari. Siamo tutte lì, in un fazzoletto. Sei punti sembrano tanti ma io dico che in questo momento l’importante è esserci. La classifica si è ulteriormente accorciata, tra poco iniziano gli scontri diretti e io aspetto con ansia la partita con la Pistoiese qui, davanti al nostro pubblico. Lì, sono sicuro, dimostreremo di essere i più forti. Perché questa è una grande squadra”.
Intanto il primo scontro diretto è andato perso. In più, sensazione delle ultime partite, la squadra passa più tempo a rotolare per terra e a lamentarsi degli arbitri piuttosto di correre, “picchiare” un po’ di più e giocare a calcio. Non sarebbe magari meglio parlare con i fatti in campo?
“Noi siamo un’altra squadra rispetto alla Lucchese, non c’è dubbio, anche se continuo a pensare che non siamo inferiori a loro. Hanno tirato in porta una volta e hanno fatto gol, noi siamo stati meno bravi del solito a costruire in attacco e io ho le mie colpe, anzi, ne approfitto per chiedere scusa a quei tifosi che si sono fatti quattrocento e passa chilometri e sono tornati a casa con la sensazione che il loro numero nove è tutto tranne che un attaccante. Sono al quaranta per cento delle mie possibilità, non riesco mai ad allenarmi come voglio durante la settimana e in campo ci vai inevitabilmente condizionato. Nessuna scusante, nessun alibi, non è la squadra che deve aspettare me ma sono io che con il sudore ogni giorno devo colmare la distanza di condizione con i miei compagni, lo so e non mi fa paura lavorare di più. Vorrei solo farlo al meglio, senza problemi fisici. Ma lo sai che io e Pignatta non abbiamo mai giocato insieme una volta? O è lui che sta poco bene o sono io che ho qualche guaio fisico che mi limita, Oggi è così, dobbiamo stringere i denti e lavorare. E’ un fatto di preparazione, non l’ho proprio fatta quest’anno e questo mi penalizza. Io penso solo a fare l’attaccante e a buttarla dentro, la categoria la conosco bene, ci ho vissuto e passato tutta la mia carriera su questi campi, soprattutto su quelli umbri, toscani e laziali dove ho giocato: le squadre sono tutte come la Lucchese, che in più ha individualità importanti. Ci dobbiamo abituare ad avversari fisicamente prestanti, che picchiano il giusto e fanno dell’agonismo intenso una buona fetta dei novanta minuti. Per quanto riguarda gli arbitri, io non penso che ci sia nessuna cospirazione contro la Spal, sbagliano, a volte di più e contro di noi questo è vero, ma penso che sia un nostro dovere intanto dimostrare che siamo i più forti e non solo leggendo la rosa. Perché, ti ripeto, per me i più forti siamo noi, anche se adesso ne abbiamo sette davanti. Nessuno ha gente come Edo (Braiati n.d.r.) o come Davide (Marchini n.d.r.), ma soprattutto nessuno, ne sono convinto, ha la voglia di riscossa che, chi più, chi meno, riguarda ognuno di noi”.
In estate, tuo malgrado, sei stato al centro di un tira e molla piuttosto irritante: Rocchi sì, Rocchi no, magari è meglio Fabbro; poi Rocchi arriva a Valbonella, passano due giorni e torna a casa. Intanto Fabbro dice definitivamente no e Rocchi ritorna, questa volta per rimanere. Letta così, in sintesi, un qualsiasi tifoso penserebbe, detto brutalmente, che sei stato la classica seconda scelta presa dalla società perché sul mercato non c’era niente di meglio.
“Sì, ammetto che dall’esterno l’unica spiegazione che un tifoso può darsi sia proprio questa. Ma non credo di doverla smentire io da qui, spero di convincere i tifosi che, nonostante abbia meno esperienza di Fabbro, posso dire tranquillamente mia a suon di gol. E anche la dirigenza. Perché se non comincio a segnare è ovvio che anche loro penseranno di aver fatto un investimento sbagliato. Durante il ritiro mi chiamò il mister, ci giocai contro quando lui allenava la Pianese, sapevo che non gli ero dispiaciuto, aveva visto in me qualcosa che ricalcava le caratteristiche che lui, evidentemente, chiede a un attaccante per il suoi tipo di gioco. Accettai subito, la Spal io l’ho sempre vista alla televisione, mi ricordo le figurine da bambino e ne ho solo sentito parlare, quindi, non ci pensai due volte. Salii a Valbonella ma capii che la situazione non era come me l’aspettavo: con gli altri ragazzi tutto bene, mi ero già inserito, ma la società tentennava, avevano altro per la testa, lo stesso Fabbro, poi, scoprii, era quello il pensiero che li teneva quotidianamente impegnati. A quel punto ho preferito andarmene con tutti i rischi del caso: non potevo restare con la consapevolezza che il mio destino sarebbe dipeso da quello che avrebbe deciso Fabbro. E’ una questione di dignità, credo, anche se mentre tornavo a casa più volte ho detto che stavo facendo una sciocchezza, perché certi treni, a prescindere dalla categoria, passano una volta. Ma non volevo passare per la toppa che chiude un buco. Il mister mi richiamò due settimane dopo e la domenica giocai dal primo minuto a Mezzolara. E oggi eccomi qui, con la voglia di esordire al “Mazza” con la maglia biancazzurra, la maglia più bella che c’è: fino a oggi ho sempre giocato con quella rossa, chissà che non sia anche per questo che non sono ancora riuscito a segnare (ride)”.
Sviscerate le ultime partite, svelato l’arcano che ti ha visto coinvolto nell’intreccio di mercato estivo con Fabbro, adesso è giunto il momento di presentarti ai lettori de LoSpallino.com .
“Beh intanto io devo farvi i complimenti per quello che tutti i giorni portate avanti: siete ragazzi che hanno tutti più o meno l’età di noi giocatori e si vede che siete mossi proprio come noi da una passione vera per quello che fate, importante. Non ti nego che le pagelle sono la prima cosa che guardiamo la domenica. A volte siamo d’accordo, altre per niente, ma il gioco delle parti è proprio questo. L’importante è farlo con la lealtà che dimostrate e con la voglia di perdonarci a vicenda gli errori. A trovarne di gente che sbaglia mai! Ma questo non pregiudica i rapporti, le interviste, i video al campo, è un modo diverso di fare stampa che ci fa sentire vicini e importanti, che apprezziamo e lo dico senza problemi a nome anche dei miei compagni, perché ne parliamo spesso de LoSpallino nello spogliatoio”.
Sai vero che questa “sviolinata” difficilmente ti metterà al riparo dal cinque secco quando te lo meriti? Scherzi a parte, Roberto Rocchi, giocatore ma prima di tutto uomo, dove è nato?
“Io vivo in un paese di cinquemila abitanti che si chiama Acquasparta, a venti chilometri circa da Terni. Lì ho tutta la mia famiglia, compresi tutti i nonni ancora. Una famiglia unita, due genitori giovanissimi non ancora cinquantenni che mi seguono appena possono, altrimenti leggono in giro cosa combino, in attesa che ogni tanto torni a trovarli, proprio come oggi (ieri per chi legge n.d.r.). Da due anni e mezzo, poi, la gioia più grande, ho una sorellina, Chiara Teresa, l’unica che riesce a strapparmi un sorriso anche quando tutto va male. Dovrebbe venire allo stadio molto presto, penso già domenica contro il Forcoli o quella dopo con la Bagnolese, comunque spero di giocare, voglio segnare per lei. E dire che all’inizio, la gravidanza di mia madre, non la presi nemmeno bene. Come calciatore ho iniziato nelle giovanili della Ternana e, per un ternano doc e un tifoso delle “Fere” come me, immagina, è il massimo, un sogno che si avvera. Almeno fino agli Allievi. Poi è cambiato tutto e lì è iniziata la mia gavetta. Sono uno che si è fatto le ossa sui campi duri della provincia umbra e non me ne vergogno”.
Restiamo ancora nel calcio: a diciassette anni ancora da compiere sei a Todi in D dove rimani tre stagioni.
“Sì da buon ternano sono passato al nemico perugino (ride), tanto è nota e famosa da tutti la grande rivalità che c’è tra queste due province umbre, non scopro niente di nuovo! Contavo meno di quello che oggi è un ’94, anzi, diciamolo pure, forse allòra non ero nemmeno all’altezza dei diciottenni di oggi. Ho fatto una quarantina di partite in tre anni, non ero titolare, per carità, segnato poco, forse otto, nove reti in tutto, niente di eccezionale insomma. Non ho vinto nulla, ho conquistato salvezze importanti, sudate, vissute con il sudore e la fatica di una giornata di lavoro sulle spalle che finiva con gli allenamenti alla sera. Non sono un campione, non lo sarò mai, ma sono uno di quelli che sa cosa vuol dire salire un gradino alla volta. Anzi, so anche cosa vuol dire scenderli i gradini: dopo Todi ho fatto cinque anni di Eccellenza, in giro tra Campitello, Pretola e ancora Todi, prima di tornare a casa”.
E’ il 2009 e tu hai ventitré anni. Il calcio è sempre in cima ai tuoi pensieri, è il tuo svago, la tua passione e la maniera migliore che conosci per dare un taglio alla routine di tutti i giorni. E non sei neanche un attaccante da disprezzare, visto che, con i tuoi gol, hai regalato gioie inattese e portato a compimento imprese importanti in giro per l’Umbria, salvando le tue squadre. Nonostante questo, torni a casa all’Acquasparta. Sempre in Eccellenza. Perché?
“Perché il calcio non è tutto, ma una parte di me. Prima di ogni cosa viene la famiglia e mia madre in quel periodo era rimasta incinta per la seconda volta e io mi sono sentito in dovere di tornare per dare una mano ai miei nella gestione della pizzeria di famiglia che abbiamo lì al paese. Non è stato un peso, in tanti mi dicevano che ormai il tempo per diventare un campione l’avevo passato da un pezzo, che forse, sarei riuscito al massimo a tornare in D. Non mi interessava granché, l’Acquasparta era una dimensione che mi andava benissimo. Ci allenavamo la sera, dopo il lavoro, spesso, quando pioveva, correvamo nel parcheggio e palleggiavamo sul cemento, il campetto in terra battuta diventava una palude e con tutto quel fango rischiavi di metterci le radici (ride). Segnai tanto quell’anno, diciannove reti in un girone di ferro, fatto di tante squadre che oggi militano stabilmente in D, come il Bastia, il Casacastalda, lo Spoleto e il Deruta. Ci salvammo e fu come rinascere per me. I miei, intanto, mi avevano convinto a intraprendere un percorso spirituale, a Todi. Non fu un caso che mia madre rimase incinta, fu cercata e voluta a ogni costo Chiara Teresa proprio grazie a questo cammino di fede che fece sentire i miei genitori di doversi in qualche modo rimettere in discussione, ancora una volta. Io ero scettico su tutto all’inizio. Non sono mai stato un praticante ossequioso, anzi, ero decisamente lontano da questa dimensione dell’esistenza. Mi sono avvicinato con molta cautela, con poca convinzione, tanti pregiudizi. Ma ho conosciuto persone che mi hanno dato serenità e insegnato a vivere la vita e le sue difficoltà in un modo diverso, più consapevole. Io ho un caratteraccio: mi abbatto facilmente, sono emotivo, vivo tutto al massimo, in positivo e in negativo. In questo modo ho trovato un mio equilibrio, ho conosciuto Suor Chiara Teresa, (ecco svelato il perché del nome alla piccola n.d.r.), una persona straordinaria con cui mi sento quasi quotidianamente. Che vi legge, per inciso: ebbene sì, siete entrati anche tra le mura del Monastero di San Francesco delle Clarisse di Todi. Quindi attenti a cosa scrivete eh! (ride)”.
Diciannove gol sono molti e, è innegabile, che anche tu abbia iniziato a crederci. Che in fondo non era ancora giunto il momento di smettere di sognare.
“Con l’Acquasparta è stata la mia svolta. Non so se tutti quei gol arrivarono per caso o ci fu un intervento di qualcuno che, non so come, mi ha aiutato a farmi sentire così importante. Il punto è che non volevo fermarmi. Volevo anche io, proprio come i miei, rimettermi in discussione ancora. Non erano in molti a capirmi, anzi. Salii al piano di sopra, tornai in D e indossai la maglia dello Sporting Terni”.
E come andò?
“Parecchio bene, nonostante un inizio difficile e complicato dove pagai lo scotto della categoria. Le prime partite le passai guardando i miei compagni dalla panchina, poi presi confidenza con il campo pian piano, con gli avversari, capii che potevo misurarmi senza paura con gli avversari, in fondo non erano così superiori a me. Presi fiducia. E iniziai a segnare. Furono dieci alla fine di quella stagione”.
Una stagione importante per tanti motivi.
“Era un mercoledì. Giocavamo al “Liberati” in posticipo il derby contro il Perugia. Ti puoi immaginare, arrivarono in massa i tifosi della Ternana per darci man forte, d’altronde, come ti ho detto, quando c’è il Perugia dalle mie parti è come il toro quando vede il colore rosso e viceversa per il Perugia (ride). All’andata perdemmo 2 a 0 ma ci presero a pallate. Quel giorno, chissà, sarà che c’era anche la televisione, non lo so, segnai una doppietta, quella decisiva con cui vincemmo 3 a 2 contro il Perugia. Fu una giornata straordinaria per un ternano segnare una doppietta decisiva al “Liberati”, nel suo stadio, contro l’acerrima rivale. E poi, ricordo, quella squadra era fatta soprattutto da giocatori ternani, la gioia fu doppia, tripla, quadrupla, non so. Fu bellissimo”.
E poi?
“E poi è arrivato il Borgo a Buggiano l’anno scorso. Un’altra svolta, l’ennesima. Erano le porte dei professionisti che si aprivano. Come facevo a dire di no? Lontano da casa, dagli affetti, all’inizio non fu facile. La storia che avevo vissuto allo Sporting Terni si stava ripetendo. Ho iniziato soffrendo in panchina. Vuoi per scelta tecnica, vuoi perché non stavo bene io, vuoi per episodi durante la partita che non mi permettevano mai di esordire. Finché non è arrivata la partita di Alessandria, contro una squadra importante che aveva tutte le intenzioni di fare risultato pieno: ho segnato due gol e ne feci altri nove, poi, fino a maggio, tra cui quelli a Treviso e San Marino, belli e pesanti”.
Non c’è due senza tre: anche a Ferrara l’inizio non è stato dei migliori.
“Con il Mezzolara ho giocato e ho sbagliato. Ho peccato di generosità, non ero pronto, non avevo benzina nelle gambe, non avevo fatto niente di preparazione. Il calcio lo devi fare anche adoperando il cervello, non solo con la voglia di strafare. Ho rischiato di essere un danno per i miei compagni, di esserlo anche per la società perché poi, fatta quella partita, sono rimasto fermo diverso tempo e ancora oggi ne risento. Tre settimane di allenamento sono tante. A volte bisogna avere pazienza e aspettare che arrivi il tuo momento. Ma ero troppo contento e volevo dimostrare di meritare la maglia della Spal. Mi dispiace di non essere ancora riuscito a dare continuità alle mie prestazioni, mi dispiace per i tifosi, perché so che hanno voglia di dimenticare un ultimo anno tribolato. Sono stato un irresponsabile e chiedo scusa, ma penso abbiano capito che la mia è stata solo voglia di dimostrare che sono un giocatore che è venuto per dare tutto alla Spal e non l’ho fatto per stupide ambizioni personali. Questo è un gruppo che merita fiducia. Anche a Lucca ho sbagliato, ma stavolta, aldilà della condizione, credo di non essere stato bravo a capire cosa voleva il mister da me. Però, ironizzando anche in famiglia, per tranquillizzarmi, forse, prendo come esempio gli ultimi due anni: difficilissimi all’inizio, panchina e infortuni, ma pieni di soddisfazioni dopo e non solo da un punto di vista personale e realizzativo, ma soprattutto come gruppo e come squadra. Voglio che anche stavolta vada a finire bene. Sono sicuro, molto presto saremo noi a guardare tutti dall’alto”.