Ammetto di non avercela fatta. Non ce l’ho fatta a trovare la forza d’animo per andare a dire “ciao” a Maci per l’ultima volta. Fatico a trovare buone formule di congedo nella vita quotidiana, figuriamoci dire addio per sempre a qualcuno. Ieri tanta gente di Ferrara (e non solo) è andata a salutare Massimo Malaguti nella chiesa di Pontegradella. Doverosamente.
Peccherei di scarsa sincerità dicendo che Massimo, Maci, ha lasciato un vuoto incolmabile in me. Sarebbe solo retorica. E usandola farei un torto non solo alla genuina sincerità che lui stesso lasciava trasparire nei rapporti con gli altri, ma anche a chi ha più diritto di me di sentirsi derubato di una persona importante. Questo perché, molto semplicemente, non ho avuto modo di apprezzarlo fino in fondo come invece è successo a tante persone nell’arco della sua vita. Nel momento di apprendere della sua scomparsa un profondo senso di sconforto mi ha attanagliato. Un dispiacere autentico che è il caso di raccontare, perché qualcosa mi è stato effettivamente insegnato da Maci.
Lo conobbi nell’estate 2009 durante un campus estivo della Spal in via Copparo. Rimasi impressionato dalla facilità con cui i bambini obbedivano alle sue indicazioni, impartite sempre col sorriso. Segno evidente di una naturale tendenza a farsi capire e apprezzare con semplicità. Ricordo anche che l’anno successivo, durante un’altra visita al Campus, non vedendolo tra gli allenatori ospiti, chiesi: “Dov’è Maci?”. Chi mi stava di fronte scosse la testa e mi spiegò che stava affrontando una battaglia estremamente delicata. Quando chiacchierammo la prima volta, in quell’estate 2009, probabilmente il male che se l’è portato via già covava in lui con crudele spietatezza. Eppure, anche quando la sua condizione divenne nota, non trovai affatto una persona diversa. Ho rivisto Maci due volte dai tempi di quel campus, sempre in via Copparo, e mai lesinò un sorriso, una battuta, un proposito ottimista. Non era una facciata, non poteva esserlo. Il suo corpo era evidentemente provato, ma non il suo spirito.
Il suo quotidiano diario su Facebook, intriso di speranza, per mesi ci ha ricordato di quanto siano sciocchi i problemi che ci poniamo quotidianamente. Solo pochi giorni prima della fine, Maci ha pubblicato sul suo profilo un’immagine di straordinaria potenza visiva che mi ha lasciato quasi incredulo: una vecchia foto di una macchina senza conducente che si fa strada in un panorama innevato (ignoro se si tratti di Ferrara, ma presumo di sì). Procede in leggera salita. O almeno sembra farlo. Voglio pensare che si vedesse così, in viaggio, proprio mentre la città a cui aveva voluto bene si tingeva di bianco. In “The Tree of Life” di Terrence Malick il personaggio interpretato da Jessica Chastain a un certo appunto ammonisce: “Se non ami, la tua vita passerà in un lampo”. Il tempo concesso a Maci è stato comunque poco, nonostante abbia dato prova tangibile di amare la vita, le persone, la sua città e il calcio. Fino all’ultimo giorno. Per questo spero che molto presto gli venga intitolato un campo qui a Ferrara. Per quanto modesto, sarebbe un tributo doveroso a un uomo che ci ha insegnato tanto, non solo dentro un rettangolo verde su cui rincorrere un pallone.