Scrivo a botta calda. A sberla viva. Con una rabbia accecante. Scrivo di una delusione enorme, totale, pazzesca, incredibile. Nemmeno la fatal Verona arrivò a tanto. Neanche il rischio sparizione. Ho pianto, sì ho pianto, e a quel paese quelli che in fondo è solo una partita di calcio. No, non è soltanto una partita di calcio perché a Portogruaro è successo tutto quello che la nostra storia di spallini ci ha spesso e malvolentieri costretto a subire. L’attesa, la voglia, la partecipazione, la passione e la gioia. Poi, in mezzora (Cristo, in mezzora!), il suicidio, la rimonta, la beffa, gli errori, la sconfitta, l’eliminazione. Incredibile ma purtroppo vero. Ancora.
C’era tutto, all’inizio e non solo, per una di quelle domeniche, una di quelle sane feste che soltanto Marco Paolini racconta tanto bene nei suoi quaderni sul rugby. Era bastata una vittoria all’andata a riaccendere la passione infinita di una città non adrenalinica ma sempre e comunque pronta a riscoprire tutto il piacere che c’è a sostener la Spal. C’era un popolo di affezionati in viaggio verso il Veneto, pranzi a base di coppa e clinto, macchine e macchine colorate di biancazzurro, uno stadio che grazie alla carica dei mille sembrava di giocare in casa. C’era anche Robi Labardi con la sciarpa al collo perché l’amore è amore. C’era pure la solita, storica sofferenza.