Dimmelo tu cos’è. Non c’entra Venditti. E’ che alle 5 del mattino di giovedì mi alzo di colpo, sudato e spaventato, nel bel mezzo del solito sogno colorato di bianco e di azzurro. Devo accendere il computer, scrivere, raccontare perché altrimenti al mattino tutto se ne va, cancellato dal nuovo giorno. E’ quando parte la musichetta di windows che mi dico, appunto, dimmelo tu cos’è. E la risposta è semplice, scontata. E’ la malattia spallina, ovvio, ma anche la paura che può avere un agofobico, ipocondriaco, paranoico il giorno prima di fare il prelievo del sangue.
Va così. Che mi sveglio di soprassalto quando vedo il pallone modello Holly e Benji. Lo vedo enorme, cioè, arrivarmi incontro come fosse lo shuttle. E’ più veloce degli ultrasuoni, dei fotoni o di chi cazzo ne so perché di chimica capisco come di economia. Prima di dover cercare di acchiapparlo, sto maledetto pallone, mi sveglio. E ricapitolo il sogno.
E’ una domenica, ovviamente. La Spal gioca al Paolo Mazza contro, chissà perché, il Catania (mica male, però). E qui, dall’avversario, cominciano una serie di dettagli precisi e infiniti che soltanto uno psichiatra può valutare. Io sono a casa di una mia nonna morta da anni. Non c’è il computer per seguire gli aggiornamenti di Hughes, non c’è nemmeno la radio e l’unica è sintonizzarsi su Telestense per vedere come sta andando dalla grafica. Vaffanculo, non si vede una beata ceppa. Siamo già nel secondo tempo e mi pare di intravvedere che stiamo perdendo uno a zero. Telefono ad Alessia, un’amica che sta sicuramente sintonizzata… tuttinsieme e in contemporanea sulla webcronaca degli Spallinati, su quella di Hughes, sulla radiocronaca di Sovrani. Conferma che stiamo perdendo ed è il dodicesimo della ripresa. Capecchi zoppica, stoicamente non chiede il cambio perché Dolcetti ha già fatto le tre sostituzioni. Ma da quest’anno c’è una nuova macallata. In questi casi può entrare un tifoso qualsiasi dagli spalti. Tocca a me e arrivo allo stadio che nemmeno il teletrasporto può fare tanto. So solo che mi vedo con delle braghette che mi vanno enormi e la maglia di Luca ha le spalle che arrivano a coprirmi i tatuaggi sugli avanbracci. Urlo come un ossesso alla squadra che possiamo farcela, che dai cazzo, dai, dai, dai. E aggiungo, urlando in faccia a Zambo, che non deve arrivarmi un solo pallone perché sono una pippa colossale in porta. Tutto lo stadio sostiene la squadra a gran voce – ovvio, è un sogno! – e dopo pochi minuti il Bazza incorna il pareggio. Io salto che sembro una cavalletta ubriaca e applaudo con i miei guantoni che assomigliano a delle pale. E’ il ventottesimo. Dai che ce la possiamo fare, mica è Spal-Potenza. A due minuti dal termine Centi strappa la palla a Don Bedin e sbraita che vuole fare lui, da solo. Avanza, avanza, avanza, ridà al guerriero che scatta a destra e rimette in mezzo. Ora le immagini rallentano naturalmente, vanno pianissimo, quasi a fotogrammi. Luis si coordina, espone il petto al lato del pallone e in mezza girata calcia sicuro. Ci mette un quarto d’ora il pallone ad arrivare nella porta dei siciliani e sembra terminare contro l’incrocio dei pali. Invece no, è dentro e lo stadio, io, i giocatori, la panchina e il mister… esplodiamo tutti di gioia. Corro a centrocampo a festeggiare con gli altri, salto sulle spalle del capitano e l’arbitro fa segno che darà cinque minuti di recupero. Porca troia, bastardo. Saranno i trecento secondi più lunghi della mia vita che terminano, insieme con il sogno, quando un giocatore del Catania, alla fine della partita, calcia verso di me. E’ qui che salto in piedi terrorizzato perché questi tre punti sono troppo importanti e io mi cago sotto. E’ qui che decido di accendere il computer, scrivere tutto e poi ragionare sulla ormai atavica, antica, vecchia, conclamata, incurabile malattia spallina. E penso soltanto una cosa. Non so quando o come o dove o con chi. So solo il perché. Il perché di una promozione in serie B che, cristo santo, dovrà arrivare prima o poi e senza farmi aspettare troppo. Per uno che passa le sue notti così, e figuriamoci i giorni, a sognare a occhi aperti o chiusi, a stare appresso a Lo Spallino, al sito, al giornale e tutto il resto, il perché è scontato. Sono come il bambino, che ormai sarà in pensione, del Buondì Motta. Me lo merito, merito io sto benedetto anno di trionfo biancazzurro.
Il mattino dopo mi tocca farne due, di prelievi perché la vena non si vede, dice l’anziano dottore che evidentemente deve essere stato informato da qualche maledetto spirito delle mie infantili paure. Così, quando appoggio l’altro braccio, il destro, sul cuscinetto, sto matusalemme con il camice bianco vede l’ovetto tatuato e chiede notizie della Spal che ai suoi tempi eccetera, eccetera, eccetera. Insomma il cerchio si chiude.
Poi, domani è un altro giorno. Sabato un altro ancora, domenica pure. C’è Andria-Spal. Che finisce con uno zero a zero esaltante come un pareggio senza reti, appunto. Settanta minuti positivi e venti, in superiorità numerica, da dimenticare. Non si punge, si tira poco. Sì, manca un attaccante ma se crei poco nemmeno Pazzini la butta dentro. L’amico Paul mi suggerisce una tesi che condivido. Dice il saggio: l’anno scorso i giocatori avevano più da dimostrare e, magari inconsciamente, si impegnavano di più, avevano più fame. Sì, può essere perché i motivi di una partenza ad andamento lento così ha, deve avere, più di un perché. Vabbè, farò come sempre, imito Jovanotti cioè. Penso positivo. Aspettando il posticipo con il Rimini da vincere assolutamente il sorriso non muore anche perché il mitico Big Pesci mi manda le fotografie della partita e ce n’è una, grandiosa, con tutta la squadra sotto la curva. Ma non è la Ovest, è quella di Andria e anche qui, meglio: fin lì, gli spallini hanno risposto presente. Una domenica senza sconfitte, una domenica senza subire gol, i tifosi in trasferta anche se i chilometri che dividono Ferrara dalla Puglia sono una marea… insomma passerò altri sette giorni di forzata fiducia biancazzurra. Ci rifaremo, ci sveglieremo, rivinceremo… perché ora la squadra deve dimostrare davvero quello che il Direttore Pozzi pensa e io con lui. Cioè che questa squadra sia realmente più attrezzata dell’anno scorso. Ecco, il problema, non il solo, è che finora non l’ha dimostrato. E’ tempo di farlo. Io ci credo, continuo a crederci e non devo fare nemmeno fatica per auto convincermi. Aspettando il prossimo sogno, dunque, e pensando alle ragioni del mio ottimismo perenne e della mia malattia costante mi chiedo davvero: dimmelo tu cos’è. Canta Antonello, alla batteria Carlo Verdone.