Massimo Mezzini da Riccione, il Big Max che si è conquistato un posto imperituro nei cuori dei tifosi spallini, merita senza ombra di dubbio ogni stilla del successo di una bella carriera, prima da calciatore e ora da allenatore. Al fianco di Pasquale Marino, di cui è non solo il vice, ma molto di più, ha appena iniziato l’ennesima avventura nella massima serie. Come regalo di Natale, infatti, l’inscindibile duo ha trovato sotto l’albero la chiamata del presidente del Genoa, il vulcanico Preziosi, che ha affidato loro la guida della squadra più antica d’Italia, quel Genoa Cricket and Football Club che vanta una delle tifoserie più viscerali e appassionate del panorama nazionale. Raggiungiamo Mezzini mentre si sta dirigendo in auto verso Genova, alle prese con le indicazioni del navigatore.
“Devo stare attento a quello che dice, perché non ho ancora memorizzato la strada”.
Com’è stato l’impatto con squadra e città?
“Positivo, anche se finora abbiamo lavorato solo tre giorni senza i sudamericani, che erano ancora in vacanza. Siamo comunque stati accolti benissimo, nell’ambiente c’è tanto entusiasmo, la piazza è gloriosa e si avvicina per calore a quelle del Sud”.
Questa per te è l’ennesima avventura in compagnia di Marino. Cosa vi lega così tanto?
“Senza dubbio la stima reciproca come persone, la fiducia che va al di là del lavoro, e poi il modo simile di vedere il calcio. Anche il fatto di essere agli antipodi geograficamente, fa sì che ci integriamo”.
Puoi fare un esempio?
“Siamo differenti in vari aspetti di gestione. Lui, da buon meridionale, è molto permaloso, mentre io ho un impatto più analitico coi giocatori. Ho un tempo di reazione diverso, sono portato a essere più riflessivo e a valutare”.
Insomma, sei un punto di riferimento per i giocatori, e fai anche un po’ da psicologo.
“Sì, a volte mi capita con alcuni. Cerco di risolvere io i problemi, analizzandoli e scremandoli, senza girarli all’allenatore. Poi, se non ci riesco, logicamente passano a lui, ma è importante fare da filtro, perché gli allenatori sono persone che vivono sotto stress continuo, e non hanno bisogno di aggiugerne altro, se è possibile evitarlo”.
Com’è nato il tuo rapporto con Marino?
“Abbiamo giocato insieme nell’88/89 a Siracusa, vincendo il campionato di C2. La stagione successiva abbiamo vinto ancora il campionato di C2 giocando insieme a Battipaglia. L’anno dopo sono passato alla Spal, e avrebbe potuto farlo anche Marino, perché Lombardo (appena diventato allenatore spallino: ndr) ci aveva allenato entrambi e vedeva bene anche lui, ma si era rotto un ginocchio e sarebbe rientrato dopo diversi mesi, così non se ne fece nulla”.
In che ruolo giocava Marino?
“Era un trequartista. Aveva poca gamba, ma un’ottima tecnica, ed era l’uomo dell’ultimo passaggio”.
Insomma, faceva segnare te.
“Proprio così”.
Poi com’è andata avanti?
“Siamo sempre rimasti in contatto. Lui è venuto in vacanza da me a Riccione, io da lui a Marsala, quando io giocavo ancora e lui allenava già. Mi chiese anche di andare a giocare a Milazzo, ma io ormai volevo chiudere la carriera vicino a casa. Poi un giorno andai a vedere il suo Paternò battere il Foggia: quella squadra giocava benissimo, e vinse due campionati di fila, in Interregionale e C2. L’anno successivo, dopo l’ultima stagione in Eccellenza a Misano, avevo deciso di smettere di giocare. Casualmente gli dissi che avrei voluto cominciare ad allenare, e che se qualcuno mi avesse chiamato come secondo, avrei accettato. Ero già d’accordo con Discepoli, che mi avrebbe preso con lui se avesse trovato squadra. Marino aveva appena firmato col Foggia, che l’anno prima aveva eliminato dai play off di C2 alla guida del Paternò; mi propose di andare con lui, e io accettai subito. Pochi giorni dopo mi chiamò dicendomi che le cose stavano diversamente da come si pensava, la società era a rischio di fallimento e non c’erano soldi, ma io gli dissi che non me ne fregava niente e andai lo stesso. Cominciammo il campionato con tre partite di ritardo a causa di fidejussioni che non arrivavano, ma conquistammo la C1 con tre giornate d’anticipo. L’anno dopo la società fallì. Ad Arezzo, in serie B, ci fu l’esonero, ma poi fummo richiamati e finimmo il campionato bene, tant’è vero che l’anno dopo eravamo in serie A a Catania, nella sua Sicilia. Quell’anno finimmo l’andata quarti, poi ci furono gli scontri con la morte dell’ispettore di polizia Raciti, e fummo costretti a giocare in campo neutro fino alla fine del campionato. Ci giocammo tutto a Bologna contro il Chievo, in campo neutro. Loro avevano a disposizione due risultati su tre per salvarsi, mentre noi dovevamo solo vincere. Fu consentito l’ingresso anche ai tifosi catanesi, vincemmo 2-0 e ci salvammo. Quella è stata l’emozione più intensa che ho avuto da allenatore, una botta d’adrenalina pazzesca”.
Dopo Catania, Udine, in una società modello.
“All’Udinese c’è una mentalità incredibile. E’ la società con la migliore organizzazione. C’è la voglia di essere un po’ come l’Arsenal, e soprattutto come il Barcellona, città dove i Pozzo hanno molti interessi d’affari. La prima squadra e la Primavera vivono in simbiosi, il centro dove s’allenano tutte le squadre, comprese le giovanili, è dotato delle strutture più moderne, dal ristorante alle mense, dalle docce alla palestra. I preparatori della società seguono tutto, e impongono metodologie comuni”.
Così, se anche va via un allenatore, non si stravolge tutto.
“Proprio così. C’è anche una rete di collaboratori e informatori che va in giro per il mondo a visionare calciatori. Qualche tempo fa è venuta fuori la storia della sala con diciotto monitor per vedere le partite: è vero che la tv ti aiuta, ma è importante anche andare a vedere i giocatori di persona, perché spesso vai a vedere Tizio che ti è stato segnalato, ma salta fuori Caio. All’Udinese, molti giocatori sono arrivati a rimorchio di altri, ma poi hanno fatto più carriera. Poi c’è da dire che il presidente Pozzo è un martello. Nonostante i suoi settant’anni e passa, ha una mente innovativa, e se qualcosa non va, ti chiede continuamente perché. A volte non c’è un perché, ma lui non si rassegna, e fa di tutto per cambiare la situazione. Se gli proponi una macchina nuova che costa tantissimo per certi esercizi in allenamento, lui la compra, perché è un investimento. Magari qualcuno non andrà bene, ma tanti altri sì. Al ristorante che ha creato al centro, la spremuta dev’essere d’arancia, non in busta, e ci sono due cuochi: uno italiano, e l’altro spagnolo, perché molti giocatori provengono da Paesi di cultura spagnola”.
Quella di Udine è stata un’esperienza gratificante anche sotto l’aspetto prettamente sportivo.
“Siamo arrivati due volte settimi in campionato e abbiamo raggiunto i quarti di finale in Coppa Uefa. L’esperienza in Europa è stata eccezionale. A San Pietroburgo, contro lo Zenith, sono andato anche in panchina da solo, senza contatti, perché Marino era squalificato, e abbiamo passato il turno. Un’altra emozione fortissima è stata quando abbiamo eliminato il Borussia Dortmund ai rigori, dopo aver vinto all’andata a casa loro 2-0 ed aver perso con lo stesso risultato al ritorno in casa nostra, subendo un gol nel recupero”.
Hai vissuto un sacco di emozioni ad altissimo livello, ma credo tu non abbia dimenticato quelle in maglia spallina.
“Io sono innamorato della Spal e di Ferrara, la piazza dove da giocatore ho ricevuto di più. Sono affascinato dalla città, dove sono arrivato quando la mia prima figlia aveva cinque mesi ed è nata la seconda. Torno spesso per trovare il mio grande amico Giorgio Zamuner, e insieme non manchiamo mai di stappare qualche bottiglia di vino buono”.
Che vini ti piacciono?
“Mi verrebbe da dirti quelli buoni, ma è troppo soggettivo. Diciamo che preferisco i vini rossi ben strutturati, come ad esempio il Barolo. In Friuli, poi, ho avuto occasione di farmi una cultura. Cerco magari di bere meno, ma di bere meglio, mentre una volta ero più per il rusco e il brusco”.
Immagino che insieme col vino mangerete qualche specialità ferrarese.
“Non vado matto per la zucca, ma mi piacciono molto cose tipo la salama da sugo e il salame all’aglio”.
Le tue tre stagioni a Ferrara sono state molto intense. Partiamo dalla prima, terminata con lo spareggio di Verona contro la Solbiatese e la promozione in C1.
“Pensa che non volevo nemmeno venire a Ferrara! Torchia mi rompeva i maroni dicendomi sempre: “Andiamo insieme a giocare nella Spal!”, ma io avevo appena vinto due campionati di C2, con Siracusa e Battipagliese, e volevo giocare almeno in C1. Furono lui, Lombardo e il direttore sportivo Giusto Lodi che mi convinsero, e mai scelta fu più azzeccata. Con i due di Ferrara, alla fine vinsi quattro campionati consecutivi”.
Come hai vissuto le due feste promozione con la Spal?
“Quella del primo anno non me la sono goduta, perché ho preso una botta in testa a due minuti dalla fine dello spareggio e sono uscito perdendo conoscenza per qualche istante. Mi sono ripreso sul pullman durante il viaggio di ritorno da Verona, ma non saltavo né ballavo, perché ero ancora rintronato, e io sono uno che quando c’è da festeggiare non si tira indietro”.
Ti sei poi rifatto con gli interessi l’anno dopo.
“Ah, sì! Il ritorno da Siena in bus, l’incontro coi tifosi allo stadio, la festa al Duchessa Isabella coi tifosi in strada: un casino stupendo e indimenticabile”!
Ricordo Bottazzi affacciato ad una finestra dell’hotel, come se fosse il papa, con la barba rasata a metà.
“Ero stato io a rasarmela per primo: lui ha fatto come me, e ne aveva di meno. Avevo deciso di non tagliarmela più dopo una sconfitta, mi pare contro la Massese. Quella fu l’ultima sconfitta del campionato. Avevo fatto il voto di tagliarmela solo da una parte in caso di promozione, e così ho fatto. Avevo anche detto che sarei andato in giro così per una settimana, ma mi sono rasato anche l’altra parte subito dopo, perché ero proprio brutto”.
Poi ti sei risparmiato l’annus horribilis della serie B, per ritornare quello successivo in C1.
“Sì, mi avevano mandato a Trieste. L’anno del ritorno a Ferrara non fu fortunato. Non avevamo uno spogliatoio intelligente, ma presuntuoso. Lo specchio fu lo spareggio promozione perso col Como. Quando, dopo la semifinale play off vinta col Bologna, ci dissero nello spogliatoio che era passato il Como, a me fece dispiacere, e un po’ mi sentivo quello che poi è successo. Avrei voluto giocare col Mantova, che ci faceva paura e col quale avremmo avuto un senso di rivalsa, avendo perso in campionato. Col Como, invece, avevamo vinto tutte e due le volte, ed eravamo certi non di vincere, ma di stravincere. Purtroppo non andò così, e fu una delusione fortissima”.
Anche altri tuoi compagni di allora dicono che in quel gruppo non tutti avevano lo stesso spessore morale.
“Qualcuno era un po’ presuntuoso e un po’ furbo, mentre altri erano fragili, come ad esempio Fiondella, che poi ha fatto una tragica fine. Era un ragazzo dolce, una persona buona, e finiva sempre per pagare cose che anche altri magari facevano, ma da più furbi”.
Quando penso a te, mi viene sempre in mente un aggettivo che affibbiavano anche a Ciccio Graziani: generoso. Non ti ha mai scocciato essere definito così?
“Sì, perché sembra che uno generoso non abbia i numeri, ma io ho sempre pensato di essere un giocatore intelligente. Avevo la capacità di capire le partite, sapevo quando dovevo passare la palla, ero generoso rientrando una volta di più, e giocavo facendo tutto per il bene della squadra. Vedevo anche con la coda dell’occhio e facevo gli assist. Gibì Fabbri diceva sempre che a fare gol sono capaci tutti, mentre fare gli assist è più difficile”.
Hai avuto grandi soddisfazioni nella tua carriera. Quanti campionati hai vinto?
“Sei da giocatore e due da vice allenatore”.
Sei mai stato retrocesso?
“Solo una volta all’Iperzola, giocando in coppia con Di Natale. Pensa te: con l’attaccante più forte con cui ho giocato sono stato retrocesso! Era l’anno in cui la Spal vinse il campionato di C2 con De Biasi. Comunque, la soddisfazione più grande è quella di aver sempre avuto la prerogativa di saper legare nello spogliatoio, ovunque abbia giocato, anche se ovviamente anch’io ho incontrato gente che mi stava sulle balle. Anche le ultime stagioni nei dilettanti, a Moncalieri e Carpenedolo, dove prendevo più del doppio del più pagato tra i miei compagni, facendo un allenamento in meno (grazie agli accordi con la dirigenza), non c’è mai stato nessuno che avesse qualcosa da dire su di me”.
Non ti viene mai la voglia di diventare capo allenatore di qualche squadra?
“Bisogna vedere le opportunità che si presentano. Le certezze che ho con Marino, allenando in piazze prestigiose, e la considerazione di cui godo (perché sono coinvolto in tutto e non mi limito a mettere i cinesini in allenamento), mi fanno dire che sono contento così, anche se non bisogna mai dire mai”.
Immagino tu segua ancora la Spal, e sia a conoscenza della sua attuale difficile situazione.
“Con Zamuner mi sento quasi tutti i giorni, e il discorso va inevitabilmente sulla Spal”.
Ti sei mai trovato in una situazione simile nella tua carriera?
“La stagione in cui giocavo a Trieste ci siamo persi a causa dei mancati pagamenti degli stipendi. In condizioni simili è difficile fare grandi campionati”.
Che augurio ti senti di rivolgere alla tifoseria spallina per l’anno che è appena iniziato?
“Prima di tutto la salvezza, perché i tifosi guardano la classifica. Poi spero che la società dia una garanzia di conduzione. Si può riuscire a fare cose accettabili con meno mezzi, in un periodo di crisi generale come questo. Forza Spal, sempre”!