PELLISSIER, IL MUSSO VOLANTE E’ RIMASTO SPALLINO

Tra tutti gli ex calciatori spallini ancora in attività, Sergio Pellissier è senz’ombra di dubbio quello che ha avuto la carriera più luminosa. Ancora oggi calca da protagonista i palcoscenici della massima serie, ed è l’uomo simbolo del Chievo Verona, compagine che ormai può ben definirsi una realtà consolidata del panorama nazionale. 340 presenze e 66 reti in serie A, sempre con la stessa divisa, oltre alla ciliegina di una maglia azzurra condita da un gol nella Nazionale di Lippi, potrebbero indurre molti giocatori a “tirarsela” un po’, e invece Sergio da Aosta è rimasto il ragazzo semplice e disponibile di sempre. Ciò non può che ingigantire l’orgoglio di averlo visto militare in casacca biancazzurra per un anno e mezzo a inizio secolo, con un ragguardevole score di 44 gettoni e 17 marcature, che l’hanno consacrato consentendogli di spiccare il volo verso l’olimpo del calcio nazionale.

A parte l’omonimia, ho scoperto che siamo nati nello stesso giorno dell’anno, il 12 aprile: ariete testardo pure tu?
“Si vede che quel giorno hanno deciso di chiamare tutti Sergio! Non credo nello zodiaco, ma testardo lo sono”.

Il tuo passaggio a Ferrara ti ha regalato una cosa su tutte: tua moglie. Come vi siete conosciuti?
“Lei lavorava nel locale dove andavo a mangiare. Abbiamo iniziato ad uscire insieme, poi siamo rimasti in contatto scrivendoci quando sono andato via da Ferrara, e ora siamo felicemente sposati con una bambina di cinque anni, Sofia, e un bimbo di sei mesi, Matteo. A Ferrara abbiamo comprato casa, perché a me la città piace tanto, e così mia moglie può tornarci quando vuole, anche se ultimamente riusciamo a venirci poco, perché mia figlia deve andare a scuola il lunedì. Abbiamo una casa anche a Verona, dove viviamo per ora, e una in Valle d’Aosta, dove credo andremo ad abitare in futuro, perché a me piace molto la montagna e anche a mia moglie. Per me, che sono nato là, la montagna è una vera passione e mi dà tranquillità anche solo guardarla”.

Quali altri ricordi hai della tua esperienza ferrarese?
“A Ferrara sono sempre stato trattato bene, e ho trascorso un anno e mezzo bellissimo. Della città mi è sempre piaciuta la tranquillità, e il fatto che si possa girare tutta in bicicletta. In campo abbiamo sofferto tanto, sono stati due anni tribolati (la stagione 2000/01 chiusa al nono posto, e quella successiva al dodicesimo, sempre nell’allora C1: ndr). Eravamo partiti per vincere, ma poi abbiamo dovuto sudare per salvarci. Ricordo un pubblico composto da tanti appassionati e ultras che non ti mettevano la pressione di dover vincere a tutti i costi. A fine partita spesso mi fermavo a lungo a discutere con loro fuori dallo stadio, perché volevo spiegare certe difficoltà e sentire cosa pensavano”.

 

Hai cominciato al Torino. Come sei approdato alle giovanili granata?
“Fui notato ad uno stage estivo, a cui avevo partecipato per stare con gli amici. Da piccolo ero juventino ma, man mano che giocavo i derby, mi cresceva la passione per la maglia granata, e sono un po’ passato dall’altra parte. I tifosi del Toro seguono la loro squadra indifferentemente in A o in B e la curva è sempre piena, perché sono abituati a soffrire, Quelli della Juve, invece, sono abituati a vincere, e quando perdono due o tre volte di fila lo stadio è vuoto. Non è mai pieno nemmeno quando vince, e questo è inconcepibile per una squadra come la Juve”.

E l’ambiente del Chievo com’è?
“Tranquillissimo. I tifosi non sono numerosi, ma c’è entusiasmo”.

Da dove deriva l’appellativo “mussi volanti”, con cui vengono chiamati i vostri tifosi?
“Il musso, in dialetto veronese, è l’asino. Pare che i tifosi dell’Hellas avessero detto che, se il Chievo fosse andato in serie A, si sarebbero visti gli asini volare. Quando ciò è avvenuto, i tifosi del Chievo si sono autoproclamati mussi volanti”.

Rimangono sempre pochini, rispetto a quelli dell’Hellas, o qualcosa sta cambiando?
“Saranno un quarto di quelli dell’Hellas, ma adesso i giovani cominciano a tifare Chievo, e tra alcuni anni il rapporto si equilibrerà. Allo stadio vengono anche diversi tifosi dell’Hellas appassionati di calcio, più che altro per vedere le grandi squadre”.

L’ascesa del Chievo è stata spesso definita secondo stereotipi, ma esistono veramente le belle favole del calcio o è solo questione di soldi e organizzazione?
“I soldi sono fondamentali e poi c’è un’organizzazione molto efficiente. Sartori e il suo staff viaggiano tantissimo e seguono venti, trenta partite alla settimana. Riescono a compiere i giusti acquisti a prezzi vantaggiosi, e così fanno quadrare i conti. La squadra non viene mai stravolta di anno in anno, perché rimane sempre uno zoccolo duro di giocatori che sa cosa deve fare. Se non hai le individualità che fanno la differenza, si deve avere un gruppo straordinario, che lavora unito per un obiettivo”.

Ora di quel gruppo sei il capitano. Come dev’essere un vero capitano?
“Ci deve tenere tantissimo. Io provo un grande orgoglio ad indossare quella fascia, mi dà la spinta a dare di più e, dopo tanti sacrifici, significa che qualcuno crede in te”.

E’ vero che l’anno scorso hai rinunciato al Napoli per rimanere?
“Il Napoli ha avanzato un’offerta al Chievo, che però l’ha rifiutata, perché ha sempre dichiarato di ritenermi insostituibile. Non ho dovuto scegliere. Il Chievo mi ha sempre accontentato, paga preciso, e vere offerte da altre società non ne ho mai ricevute personalmente”.

E se ti avessero chiesto cosa volevi fare?
“Solo se avessero deciso di cedermi ci avrei pensato, anche perché dall’altra parte mi offrivano il doppio, ma sono contento così”.

Nessun rimpianto per non aver giocato con una cosiddetta “grande”?
“No, e poi chi può dire come sarebbe andata? Magari non avrei giocato, o avrei fatto solo qualche presenza, ma io voglio avere dei ricordi da raccontare ai miei figli, e solo giocando posso averli”.

Ti consideri una delle ultime bandiere in circolazione?
“Diciamo semplicemente che voglio rimanere qui per due motivi. Il primo è per l’affetto e la fiducia reciproca, che fa sì che m’impegni di più e renda al meglio. Il secondo è perché si tratta di una società giovane, con la quale posso battere tanti record. Con la maglia del Chievo detengo finora il primato del maggior numero di gol in serie A (complessivi e in una stagione), quello in serie B in una sola stagione, quello delle presenze in serie A, e punto a battere il primato di presenze complessive. Sono queste le cose che mi rimarranno dentro e per le quali sarò ricordato. Per me vale ancora di più che giocare in una grande squadra, dove molti spariscono e vengono dimenticati”.

Una domanda alla Marzullo: deve più il Chievo a te, o tu al Chievo?
“Io gli devo tanto. Fin da quando ha avuto il coraggio di comprarmi dal Toro, che non mi voleva più, poi prestandomi alla Spal e riprendendomi, e ha sempre creduto in me anche quando le cose non andavano bene. Ora posso dire di aver dato anch’io il mio contributo ai risultati della squadra in questi anni e il rapporto si è fatto più equilibrato”.

L’anno scorso hai avuto la grande soddisfazione di indossare la maglia azzurra, siglando pure una rete in un’amichevole contro l’Irlanda del Nord. Puoi raccontare qualcosa di quell’esperienza?
“Circa tre settimane prima, la società venne avvertita dalla federazione della mia possibile convocazione, come accade di solito. Dopo una settimana, più o meno, mi dissero che sarei stato convocato. La cosa girava nell’aria, ma mi sembrava strana. Il debutto è stata una grande emozione. Nella mia carriera ho avuto la fortuna di realizzare tanti sogni, perché ho giocato e segnato sia in serie A, sia in Nazionale”.

Che fine ha fatto la maglia che indossavi?
“Me ne avevano date due. A fine partita ho dovuto scambiarne una con un avversario, perché il presidente Campedelli me l’aveva chiesta, essendo un appassionato di tutto ciò che riguarda l’Irlanda, maglie comprese. L’altra l’ho a casa”.

Pensavi di avere altre occasioni in Nazionale?
“No, sinceramente credo di essere un buonissimo giocatore, ma non da Nazionale, anche se è vero che adesso non ci va sempre il più bravo, ma chi c’è in quel momento, chi fa bene due mesi, e non tutta la stagione. Una volta sapevi sempre chi c’era in Nazionale, mentre quelli di adesso magari tra sei mesi spariranno. E poi a me dissero chiaramente che, per avere altre chances, avrei dovuto giocare in una grande squadra, perché oggi il calcio è una questione di pubblicità, sponsor, è tutto un business”.

E’ triste sentire che questa logica viene applicata anche alle convocazioni in Nazionale, che dovrebbero essere super partes.
“Sì, ma a parità di livello, tra un giocatore di una “piccola” e uno di una “grande” squadra, convocheranno sempre il secondo per questioni d’immagine, e ci sono grandi interessi economici”.

Sempre più spesso, la Nazionale è comunque costretta a pescare in provincia, per la mancanza di italiani nelle squadre di vertice.
“Le grandi squadre comprano i nomi ad effetto dall’estero, anziché investire sui giovani italiani perché non c’è più il tempo di aspettarli. Anche le piccole squadre s’indebitano per non retrocedere, altrimenti rischiano di fallire perché è troppa la disparità di introiti tra le due categorie. E’ sempre più un calcio solo dei ricchi, e forse si dovrà arrivare al collasso per prendere dei provvedimenti, anche se già si capisce in quale direzione sta andando questo mondo. Non è più il calcio che piaceva a me, anche se giocare in stadi come San Siro, davanti a decine di migliaia di persone, è sempre una splendida emozione”.

Un Campedelli ci rimette alla fine della stagione?
“Non ci rimette, o ci rimette poco, perché non fa mai il passo più lungo della gamba, e si avvale di ottimi collaboratori”.

Chi vince lo scudetto quest’anno, e chi retrocede?
“Credo lo vinca il Milan, ma non mi chiedere chi retrocede, perché non vorrei mai…”

Segui la Spal?
“Sì, vado sempre a vedere i risultati, e so che sta facendo bene, non solo da quest’anno. Lì ho lasciato un pezzo di cuore, e spero che riesca a fare quello che avrei voluto fare io qualche anno fa”.

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