“PARAMAT”… INDIMENTICABILE, INDIMENTICATO

Gioca bene, gioca male, Paramatti in Nazionale!”. Era questo il coro che si levava dalla curva Andrea Costa, quando il terzino macinava avanti e indietro la fascia con la maglia del Bologna. La storia di Michele Paramatti è di quelle da raccontare ai ragazzini che si affacciano al mondo del calcio, per far capire loro che la vita può riservare amarezze ma, poi, con l’umiltà e l’impegno possono arrivare anche le grandi gioie: come, ad esempio, passare da un allenamento coi calciatori disoccupati a una festa per lo scudetto.

Cominciamo parlando delle tue origini. Sei figlio d’arte, e a tuo padre Lucio è stato addirittura intitolato uno stadio.
“Beh, non esageriamo: è un campetto! Comunque è vero, mio padre è stato un calciatore dilettante, è arrivato fino alla quarta serie, poi è stato un dirigente storico del Salara, e per questo gli hanno dedicato lo stadio locale. E’ stato lui a trasmettermi la passione del calcio. Teneva la rassegna stampa delle mie “gesta” calcistiche, raccogliendo tutti gli articoli di giornale. La conservo ancora”.

Il tuo passaggio alla Juventus fu l’ultima grande soddisfazione della sua vita.
“La rassegna stampa completa è finita col passaggio alla Juve. Ha appena fatto in tempo a vedermi indossare la maglia bianconera in due amichevoli, e poi se n’è andato. Per lui è stata una grande gioia, anche se già stava male, perché quella bianconera è sempre stata la fede di tutta la famiglia, me compreso”.

Allora tuo figlio Lorenzo è un traditore!
“No, anche se gioca nelle giovanili dell’Inter è juventino anche lui”.

A un certo punto pareva dovesse passare al Chelsea.
“Erano venuti a vederlo, ma non avrei acconsentito al trasferimento, anche se l’offerta era buona, perché avrebbe dovuto interrompere gli studi a soli quattordici anni. Poi l’ha cercato l’Inter, proponendo una soluzione gestibile. Ora ha sedici anni, è un ragazzo maturo e tranquillo, frequenta il liceo scientifico statale e vive in un convitto vicino a Milano con una trentina di ragazzi delle giovanili. Sono seguiti giorno e notte dalla società, che ha un’organizzazione notevole ed è sempre pronta a fare le veci dei genitori, tanto che, anche a chi non ha voglia di andare a scuola, impongono di frequentare un istituto privato”.

Ai tempi in cui lasciò le giovanili del Bologna per trasferirsi all’Inter, tu fosti molto critico verso la società rossoblù, accusandola di scarsa lungimiranza.
“Sì, perché una società che punta sui giovani è come un fruttivendolo che vende le sue mele: le espone, le mette davanti, le fa vedere. Un buon commerciante le sa vendere. Se un giovane a diciott’anni gioca in prima squadra, a venti acquista valore e lo si può vendere ricavando una bella somma. Il Bologna, invece, bloccava i giovani senza valorizzarli. Parlo dell’epoca dei Menarini, quando già tirava una brutta aria, mentre adesso, con la nuova proprietà, non so come andranno le cose”.

Poi Michele chiede informazioni sulla folta colonia di ex rossoblù che veste attualmente la maglia della Spal, e l’occasione è buona per strappargli un giudizio sui suoi ex compagni di squadra.

“Locatelli ha dei colpi fantastici. Quando sta bene, fa la differenza. Dipende dalla voglia e dall’entusiasmo con cui è venuto a Ferrara. E’ un tipo che scherza sempre, ed è così al naturale. Vlado Smit è un grande! Purtroppo per lui, giocavo io da terzino e lui stava in panchina, ma avrei scommesso che avrebbe giocato in serie A. Era serio, un mancino validissimo, e stravedevo per lui. Cipriani è forte. Dipende da come sta fisicamente: ha avuto problemi fisici che lo hanno limitato, ma è di categoria superiore”.

Facciamo un lungo passo indietro. Come sei arrivato alla Spal?
“Quando giocavo nel Salara, Manfredini, dirigente dell’A.C. Ferrara, mi chiese di partecipare a un torneo a Vigarano Pieve. Lì mi vide Luciano Cazzanti e chiese ai miei genitori di lasciarmi andare a Ferrara. Il primo anno giocai nell’A.C. Ferrara, poi passai alle giovanili della Spal. Mi alzavo alle 6.30, la corriera ci metteva quasi un’ora per fare venticinque chilometri, andavo a scuola, poi all’allenamento, e tornavo a casa alle otto di sera”.

Poi venne il debutto in prima squadra e il prestito a Russi, nei Dilettanti, dove vivi tuttora.
“Sì, qui ho conosciuto la mia ex moglie e vivono i miei figli, a parte quando Lorenzo sta a Milano. L’altra figlia ha nove anni, si chiama Ludovica, gioca a basket e purtroppo tifa Milan. Ora sto con la mia nuova compagna, Patrizia, e insieme abbiamo deciso di restare a Russi vicino ai ragazzi, nonostante il lavoro ci porti spesso a Bologna, dove preferirei abitare. Lei è avvocato, mentre io ho due società immobiliari e mi occupo di compravendite e ristrutturazioni”.

Torniamo alla tua esperienza spallina. Dopo la parentesi a Russi, sei rientrato alla base e ci sei rimasto per sei anni fatti di grandi gioie, come la cavalcata della doppia promozione, ma anche di momenti difficili. Toglimi una curiosità: chi fu il “genio” che decise di metterti fuori rosa, costringendoti ad allenarti con i disoccupati dell’Equipe Romagna?
“Non l’ho mai capito. Allenatore, presidente e direttore sportivo si scaricavano la responsabilità, e poi il presidente ascoltava sempre il suo consulente personale, perché non era esperto di calcio. Io ho affrontato con dignità quell’esperienza, e quando mi hanno richiamato li ho fatti ricredere. Poi mi hanno ceduto al Bologna, e da lì è cominciata la mia ascesa”.

Del Bologna sei diventato addirittura capitano in serie A, segnando pure un gol in una semifinale di Coppa Uefa, prima del grande salto alla Juve, dove hai vinto uno scudetto. Ricordo che proprio quell’anno rifiutasti di passare all’Atalanta a gennaio, e fu una fortuna, altrimenti non avresti potuto festeggiare coi tuoi compagni a fine stagione.
“Sono sempre stato tenace, coriaceo, e pensavo di trovare spazio. Così fu, infatti, perché giocai diverse partite. E poi non mi è mai piaciuto lasciare a metà le cose. Anche l’ultimo anno a Reggio Emilia, a trentacinque anni in C, rifiutai alcune offerte di B a gennaio, nonostante le cose non andassero bene. Poi rinunciai al secondo e ultimo anno di contratto. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era la mancanza di rispetto. Dalla prima amichevole estiva i tifosi, presuntuosi e prevenuti, avevano cominciato ad insultarmi, solo perché avevo giocato nella Spal, nel Bologna e nella Juventus. Queste cose sono assurde, perché si è professionisti, e si gioca solo per la squadra del momento. La dirigenza non interveniva, e la situazione era allucinante, per niente sana; così decisi di smettere”.

Qualche anno fa ci siamo incontrati su un campo da golf; io non so giocare, ma tu sì, e sei anche molto bravo. Cosa ti piace di questo sport? E perché tanti calciatori lo praticano, soprattutto dopo la fine della carriera?
“Il golf è la continuità con l’erba del campo di calcio. Ti dà la possibilità di mantenere il contatto con l’erba proseguendo in modo soft l’attività fisica. E poi il golf t’impegna soprattutto a livello mentale: è una sfida con te stesso, fatta di applicazione e continuo miglioramento”.

Qual è il tuo handicap?
“Quattordici, ma è da due anni che non faccio gare, e se riprendo mi abbasso”.

A quanto pare, il calcio non ti manca.
“Quando ho smesso di giocare, ero un po’ nauseato. Ora non mi sono ancora stancato della mia attuale attività, e non avrei il tempo di rientrare nel mondo del calcio. Mi accontento di seguire mio figlio”.

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