Il calcio è sport popolare per eccellenza. Lo è stato (insieme al ciclismo) e cerca di esserlo ancora, a dispetto degli attentati perpetrati dalle istituzioni (calcistiche e non) ai suoi danni, e quindi ai danni dei suoi fruitori: la gente, il popolo.
Il popolo si riconosce nei propri valori: lavoro, abnegazione, impegno, sacrificio. Per questo trasferisce sul calcio il proprio modo di essere, e si aspetta dai calciatori – quelli che sostiene, tifa, ama – la stessa mentalità, lo stesso comportamento. Ora, è evidente che il calcio non è solo sudore. Si nutre anche di doti. Ma solo con quelle non si va da nessuna parte, come non basta il solo impegno. La simbiosi perfetta è costituita da qualità e grinta. Non esiste una tifoseria che si accontenta solo dell’una o dell’altra.
Il Barcellona (club popolare per eccellenza, simbolo dell’indipendentismo catalano e dell’anti-franchismo) fa brillare gli occhi e fa amare il calcio, ma vive anche del “lavoro oscuro” (come direbbe chi ne sa) delle proprie stelle d’attacco, che non esitano a pressare subito. A Saint Etienne, città gemellata con Ferrara, città operaia, città che sta riemergendo dopo una durissima crisi che ha portato alla chiusura di molte industrie, prima del campionato i dirigenti del locale e famosissimo club, portano i giocatori in miniera. Sì, li fanno scendere nelle vecchie e ora chiuse miniere, per far capire ai calciatori in che condizioni vivevano i lavoratori che poi, allo stadio, rappresentavano la massa dei tifosi dei verdi. Lì amano certi valori: gente giovane, che corre, che suda la maglia. Platini lo hanno apprezzato, stimato, considerato il più forte, ma non l’hanno mai amato. Loro hanno amato Osvaldo Piazza, stopper argentino che nei momenti di difficoltà suonava la carica con le sue folli cavalcate da un’area all’altra. E hanno amato Dominique Rocheteau, riccioli imperlati di sudore, bocca schiumante sangue e calzettoni abbassati per i crampi, eppure stoico e capace di segnare il 3-0 della qualificazione contro la Dinamo Kiev in una vecchia Coppa dei Campioni. In cui la finale venne raggiunta con 9 titolari su 11 provenienti dalle giovanili. Nel Saint Etienne di oggi 7/8 elementi del gruppo titolare viene dal vivaio. E nessuno si lamenta per la loro inesperienza.
Pensavo a ciò mentre ammiravo la bella Spal vista col Pisa al debutto in campionato. Ci pensavo perchè mi venivano in mente quei valori. Giovani, impegno, dedizione, sacrificio, grinta, sudore. E qualità. Da tempo, al Mazza, non mi divertivo come mi sono divertito domenica. Da tempo non vedevo la squadra giocare con tanta intensità, con tanto ardore, con tanto piacere di correre uno per l’altro, con tanto carattere e voglia di vincere. E con la capacità di giocare a calcio. Un calcio costruttivo, offensivo, in grado di creare svariate palle-gol tutte su azione manovrata. Deve aver apprezzato anche la gente, se il ritmato battimani bulgaro della tribuna si è unito agli incitamenti della Ovest, e se alla fine tutto il pubblico si è alzato in piedi ad applaudire i biancazzurri.
Forse è stata la base, la premessa, per ricreare un feeling, indipendentemente dai risultati. Buona affluenza, lontana da quelle di una volta ma superiore a molte anche di serie B (500 paganti a Brescia!) se andiamo a vedere i resoconti di queste prime giornate cadette. La politica dei prezzi spallini aiuta, ma conterebbe nulla se dal campo non ci fossero i segnali giusti. Lo slancio di Ghiringhelli, i furiosi tackle scivolati di Pambianchi, l’animus pugnandi e la lucida impostazione di Agnelli, Bedin che sradica zolle e avversari, Laurenti che delizia per stile ed eleganza, ma anche che lotta per tenere dentro una palla sulla linea di fondo, Melara che brucia l’erba, Arma che stoppa elegantemente di petto ed apre il gioco, Arma che segna, Arma che sbaglia e fa disperare come Mendy, il Panterone capace dell’impossibile per poi fallire il possibile… Ma è tutto un insieme, è uno spirito, è un segnale che viene mandato.
Mi sbilancio: è una Spal da amare. Il popolo non chiede altro.