UNO SPALLINO A LONDRA. UN TIFOSO BIANCAZZURRO… IN TRASFERTA RACCONTA LA SUA SANA PASSIONE PER LA SPAL TARGATA STEFANO VECCHI. UN AFFETTO CHE LA LONTANANZA NON SCALFISCE

di Michele Ronchi Stefanati

Oggi ero a un colloquio di lavoro. Be’ forse prima è meglio dire che è da un po’ che sono a Londra per studiare. E che sto cercando un impiego estivo per le Olimpiadi. Insomma verso la fine del colloquio, dopo aver detto che mi piace lo sport e che gioco a calcio da quando sono nato, l’intervistatrice mi fa: “Per che squadra tieni?”. E io: “Tengo per la Spal”. E dopo devo darmi un bel da fare per spiegarle, con il mio inglese emiliano, che adesso siamo in terza serie, ma che siamo stati grandi, siamo arrivati in finale della coppa nazionale, una volta, e siamo arrivati quinti, un’altra, in seria A, e che Capello, “Ha presente Capello?”, ecco “quel” Capello l’abbiamo inventato noi, molto prima che allenasse la vostra nazionale. Da giocatore, sì da giocatore. Allora, questa è la malattia che non va più via. E’ la malattia che mi ha fatto prenotare un aereo per poter essere a Ferrara il giorno del derby con la Reggiana dopo che la mia amata con le pezze al culo aveva eroicamente battuto la capolista sul suo campo (Castiglia, il tuo sinistro al “Liberati” mi mette ancora i brividi). Ed è la stessa malattia che da quando sono qui, e non posso più cantare in curva Ovest che Vecchi è uno di noi e che noi vogliamo questa vittoria, e che son ferrarese e me ne vanto, mi fa passare ogni mia maledetta domenica londinese, più o meno dalle 2 alle 4 (dalle 15 alle 18 italiane), in un nuovo rito settimanale, le cui fasi sono più o meno queste: uno, indossare la maglia numero 11 della SPAL (quella di Laurenti o di Mendy, anche se a me l’ha regalata l’amico Bacari, che l’ha avuta a sua volta da Fofana lo scorso anno,  il quale peraltro era uno dei miei giocatori preferiti, anche se come spesso ci accade non abbiamo la pazienza di aspettarli, i giocatori – Migliorini escluso, chiaramente); due, aprire il portatile e collegarmi a LoSpallino.com (non lo dico per piaggeria, è proprio quello che faccio); tre, leggere tutti gli articoli che non ho avuto tempo di leggere durante la settimana: quelli sulla società – ce la fa l’Arslab? Che ne pensa et? Quanti Santarelli e Pelliccioni dovremo sorbirci ancora? – e quelle, che mi appassionano di più, sulla squadra – come sta Zambo? 4141 con Miglio a far gioco o con don Bedin a far legna? Kevin gioca o gli preferisce Ghiro? Canzio o Giovannino? Fortu c’è? E Bedu?; quattro, finalmente, godersi la diretta, sempre gioendo e sempre soffrendo, come quando ci siamo mangiati il Carpi nel primo tempo  e io me ne sono andato in cucina a prepararmi un toast con un sorriso che mi toccava le orecchie, con il mio coinquilino americano che mi chiedeva come mai ero così felice, e io gliel’ho raccontato. E allora ho ritardato un po’, e al mio ritorno in camera il secondo tempo era già iniziato e il punteggio era già cambiato: “Oh dio mama!”. Da due a zero a due a due! Notaristefano non mi è mai piaciuto, avrei preferito tenere Dolcetti, ma dopo questa! Ingrato! E lì con il cuore a mille che non si capisce se almeno un punticino ce lo portiamo a casa, dopo un primo tempo in cui noi sembravamo il Barcellona e loro non ci stavano capendo proprio nulla. Alla fine la maglia numero 11 di Fofana è tutta sudata, come se avessi giocato io.
Ora, i fatti sono questi. Che io ho ventiquattro anni e anche se la Spal la seguo da quando sono in grado di intendere, le mie prime labili immagini in biancazzurro sono quelle di Brancaccio e di Bizzarri, di Boschin e di Putelli. Mi sono goduto la Spal di Discepoli e ho pure assistito, anche se per poco e non all’epoca giusta, all’apparizione sulla panchina di quel mago di Gibì, e mi sono entusiasmato alle rovesciate del Cance, ho amato alla follia la Spal di De Biasi e anche quella di Rossi. Ma la grande Spal, non dico quella di Paolo Mazza – come avrei voluto vedere giocare Oscar Massei o Ezio Vendrame! – quella anche recente, quella della serie B di Fabbri, quella dei ventimila, l’ho solo sentita nell’aria, quando la passione era ancora vivace, nei primi anni ’90, e ancora si vedeva che noi non eravamo proprio fatti per stare in C1:

la storia ci dice che siamo,
tra le grandi del calcio italiano,
con Mazza c’è stata la gloria,
con voi tornerà la vittoria
oooooooh
ooooooooooooooh

Eppure, mai nella mia (ancora breve, sì, ma quasi ventennale, ormai) esperienza di tifoso spallino mi sono sentito tanto vicino alla squadra come quest’anno. E la ragione credo sia una: che questa è una squadra di giovani. La rosa di quest’anno è composta quasi esclusivamente da gente che ha, se li ha, più o meno vent’anni.
Questo fa sì non solo che la Spal di quest’anno sia una squadra che corre, che mostra attaccamento e che talvolta osa (come a Terni), pur magari perdendo punti per ingenuità. Ma fa anche avvertire, credo, e regala almeno ai tifosi spallini che hanno più o meno la mia età, una vicinanza assoluta, una condivisione che va oltre il campo e riguarda la vita e le scelte.
Le vicende societarie avrebbero potuto creare una situazione disastrosa, dal punto di vista dei comportamenti, degli atteggiamenti: che calciatori non pagati scegliessero di non rispettare più il loro contratto sarebbe stato, tutto sommato, quasi normale. E invece no: mai nessuna defezione agli allenamenti, nessuna diaspora a gennaio (Melara aveva tutto il diritto di andare a provare la B), nessun giochino delle parti. Sempre esemplari, a vent’anni. Sempre professionali, loro che professionisti lo sono da ieri. Incontrare Capecchi che porta fuori il cane dopo la partita, Arma che si diverte di fronte ad un Buskers, gli altri ragazzi al Renfe, in piazza Ariostea o in via san Romano, in un’atmosfera tranquilla, dove anche il calciatore professionista fa una vita normale, senza pressioni eccessive, senza ossessioni, senza venire costretto in prigioni dorate (dorate, per i nostri, proprio no, almeno quest’anno) è sempre, almeno in Italia, una cosa insolita. A Londra mi è capitato di stupirmi nel vedere i tifosi di squadre opposte incontrarsi senza problemi nel dopo partita in una bettola che vende fish & chips a pochi passi dal Loftus Road, lo stadio del Queen’s Park Ranger, in Premier League. Nessun biglietto nominativo, nessuna barriera, nessun assembramento militaresco, 90 minuti di cori appassionati e sfottò e poi via con tarallucci e vino (pesce e patate fritte): il calcio vissuto per quello che è.
Ricordo che il regista Aureliano Amadei (il regista di 20 sigarette, che era in quei giorni in città per un paio di proiezioni del pluripremiato film sulla strage di Nassiriya) si era mostrato  piacevolmente stupito di fronte a me che gli indicavo il capitano della Spal a passeggio per la nostra bella piazza, un venerdì. Lui, tifoso romanista, che vorrebbe tanto che anche Totti potesse girare la sua città senza tanti problemi mi fa: “Davvero? Magari fosse così a Roma”.
E allora la butto giù così: la Spal di quest’anno, sissignori, è un modello. I giocatori sono un modello di serietà professionale. Ma la Spal di quest’anno – tutto l’ambiente: chi ci lavora e chi la tifa, quegli ultras sempre trattati come criminali che sono invece ultimi romantici in questi tempi tristi – modello per il calcio italiano, che deve imparare a essere meno ossessionato di sé (e lancio anche questa, per quanto conti: perché i nostri calciatori non cominciamo a pagarli meno e lasciarli vivere di più?). E il merito è tutto di questi ragazzi, di Kevin e di Rascio, di Ale Vecchi e di Michi Marconi, di Canzio e di Pambianchi, di Miglio e di Agnelli, di Paolino e di Castiglia, di Fortu e di Taraschi, di Capecchi e del Capitano e di un grande, davvero grande condottiero, Stefano Vecchi. Speriamo che ci portino alla miracolosa salvezza, speriamo che restino a Ferrara il più possibile, speriamo possano crescere con la Spal e riportarla dove merita. Ma anche se non sarà così, se anche seguiranno altre strade e ce li vedremo contro, io (e non solo io, credo) questi ragazzi me li ricorderò per sempre.

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