Il più grande. Che altro dire? Oscar Alberto Massei è semplicemente il più grande calciatore che abbia mai vestito la maglia della Spal. I record di presenze (244) e reti (47) in maglia spallina in serie A gli varrebbero già quel titolo, ma il posto più grande nel cuore dei tifosi l’ha conquistato grazie al suo amore per la città e per la maglia, che non ha più voluto svestire fino a quando ha deciso che era giunta l’ora di smettere di deliziare il pubblico col suo calcio talentuoso. Non ha però smesso di amare quel pubblico e quella maglia, ricambiato per sempre non solo da chi ha avuto la grande fortuna di vederlo giocare, ma anche dalle generazioni di spallini che si sono scaldate ai racconti dei padri e dei nonni.
Lei è nato in Argentina, ma ha origini italiane. Com’è la storia della sua famiglia?
“I miei nonni paterni venivano da Treia, vicino a Macerata, e mia mamma da San Giuliano Nuovo, vicino a Tortona, in provincia di Alessandria, da dove era emigrata in Argentina all’età di quattordici anni. I miei genitori si sono incontrati a Rio Quarto, dove ho ancora dei parenti. I miei fratelli sono deceduti, ma là ho le mie cognate e i nipoti”.
Va spesso a trovarli?
“Sì, sono tornato da poco, dopo aver trascorso in Argentina cinque mesi. Da qualche anno cerco di saltare l’inverno in Italia, anche perché il clima non fa bene alla mia artrosi”.
So che trascorre molto tempo nella sua casa al mare in Liguria.
“Sì, anche adesso sono a Bonassola, nella zona di Levanto, mentre ormai sto molto poco nell’altra casa di Milano, dove vive mia figlia”.
Com’è stata la sua infanzia in Argentina?
“Un’infanzia felice. Eravamo gente modesta, papà era ferroviere, e noi eravamo tre figli maschi”.
Com’è cominciata la sua carriera calcistica?
“Dopo gli inizi giovanili (a Rio Quarto nel Centro Cultural Alverdi, ndr), a sedici anni mi sono messo in evidenza e a diciotto ero in serie A al Rosario Central, con cui ho disputato tre campionati”.
Poi è arrivata la chiamata dall’Italia.
“Nell’ultimo anno in Argentina, dopo essere stato capocannoniere del campionato con ventuno gol, sono stato acquistato dall’Inter”.
E’ stato traumatico l’arrivo a Milano?
“Sì, era dicembre, venivo dall’estate argentina, e ho trovato la neve. E poi, a Milano mi aspettavano come il salvatore della patria, ma io non mi allenavo da due mesi perché ero militare con la “revolucion de Peron”. Comunque, dopo un po’ mi sono ambientato e ho segnato nove gol nelle prime quattordici partite. E’ andato tutto bene fino all’infortunio al ginocchio contro la Roma”.
Rottura dei crociati: un infortunio che allora significava la compromissione di tutta la carriera. Ha mai avuto paura di dover smettere?
“Sì, tanta. Sono stato fermo sei mesi, ma ho perso praticamente due anni, prima di riprendermi e tornare a giocare a un buon livello”.
A causa di quell’incidente non è mai nata la sua storia con la Nazionale italiana.
“In Argentina avevo rinunciato alla convocazione perché avevo già il contratto in tasca con l’Inter e, se avessi giocato nella nazionale argentina, non avrei potuto farlo in quella italiana, sfruttando la regola degli oriundi. In Italia ero stato convocato nell’Under 21, con cui sarebbero bastate tre partite per diventare calcisticamente italiano a tutti gli effetti, ma, prima di poter debuttare con la maglia azzurra, è arrivato quell’infortunio a rovinare tutto”.
Com’è stata la ripresa?
“L’Inter mi ha dato in prestito alla Triestina, dove Trevisan mi ha cambiato ruolo, facendomi giocare a centrocampo, e io ho ripreso con fiducia e tranquillità”.
Lei ha dichiarato di essere nato per il gol, e il cambio di ruolo ha snaturato il suo modo di giocare. Ha molti rimpianti per com’è andata?
“Dopo l’infortunio avevo perso l’appuntamento col gol, ma col cambio di ruolo è iniziata una nuova carriera”.
Chi l’ha vista giocare a Ferrara non ha alcun rimpianto per quel cambio, visto il rendimento che ha espresso in campo nei suoi anni in biancazzurro.
“A Ferrara stavo fisicamente abbastanza bene, non al cento per cento, ma a buon livello”.
Giusto per capire la differenza di posizione tra la sua prima e la sua seconda carriera, a quali giocatori di oggi può paragonare il suo modo di stare in campo?
“Prima giocavo da trequartista come Messi, muovendomi tra attacco e centrocampo, mentre alla Spal giocavo da regista, in una posizione simile a quella di Pirlo, il cui modo di giocare rispecchia il mio e come pensavo il calcio”.
Com’è arrivato alla Spal?
“A Trieste giocavo a centrocampo con Giorgio Bernardin, che era passato con me dalla Triestina all’Inter. E’ stato lui, che aveva giocato qualche anno prima nella Spal (dal ’52 al ’54: ndr), a consigliarmi a Mazza, che mi ha preso in prestito. Bernardin (ribattezzato dai tifosi ferraresi “Piede di Dio” per il gol salvezza nello spareggio per la permanenza in serie A col Palermo: ndr) è purtroppo deceduto nel 2011: stavamo sempre insieme qui a Bonassola, dov’era nato”.
La stagione 1959-60, la sua prima in maglia biancazzurra, coincise anche col miglior piazzamento nella storia della Spal in serie A.
“Mazza aveva rinnovato la rosa, e il quinto posto finale fu una sorpresa per tutti, compreso lui. Ricordo le vittorie a Napoli (0-3 alla prima di campionato: ndr), Genova (0-1 sul Genoa con rete proprio di Massei: ndr), Bologna (2-3 con la terza rete di Rossi al ’90: ndr) e tante altre belle partite. La squadra era equilibrata e forte, e io feci un ottimo campionato, tant’è vero che alla fine della stagione Mazza fece uno scambio, vendendo Picchi all’Inter e riscattando il mio prestito. Sicuramente c’era una differenza economica a favore della Spal, perché Mazza faceva sempre ottimi affari”.
Che ricordo ha di Mazza?
“Ottimo. Era un uomo autoritario, capace, intenditore di calcio. La Spal alternava campionati belli ad altri difficili, dovendo stare attenta al bilancio, ma i grandi risultati ottenuti nella sua gestione sono soprattutto merito suo. Quando doveva fare i contratti coi giovani era sempre arrabbiato: era una sua tattica per mettere paura e limitare le loro richieste. C’è però da dire che quel che prometteva manteneva, e aveva una grande serietà nei pagamenti”.
Com’era vista la Spal nel panorama calcistico nazionale?
“Era una provinciale di lusso, tenuta molto in considerazione per la serietà della società e il gioco, scarno e veloce, adatto a una provinciale”.
Il vero allenatore era Mazza, no?
“Mazza comprava e vendeva, faceva lui la squadra e dava le indicazioni tecniche prima della partita. Di allenatori ne sono passati tanti, da Ferrero a Fabbri e Montanari, ma quello che è durato di più è stato Petagna. Ferrero, ad esempio, quando si rese conto che doveva stare a disposizione di Mazza, se ne andò, o lo licenziarono, non so. Petagna, invece, resistette cinque o sei campionati”.
Che tipo era Petagna?
“Tranquillo, sapeva qual era il suo compito. La formazione la decideva con Mazza, ma in partita era lui l’allenatore, anche se il presidente veniva sempre negli spogliatoi durante l’intervallo, e spesso ci faceva grandi sfuriate”.
Cosa pensa del calcio di oggi?
“Ci sono meno grandi giocatori che ai miei tempi, ma giocare oggi è più difficile, perché c’è meno tempo di ragionare. La velocità è aumentata per via della preparazione e delle condizioni dei campi, che sono molto migliori”.
Che opinione ha dei giocatori di oggi che si lamentano dei terreni di gioco?
“Chi non gioca bene oggi è perché non è capace: non può dare la colpa al terreno. Quando giocavo io, spesso si doveva andare sulla parte esterna per far correre il pallone, perché in mezzo c’era il fango. Non c’erano i teloni, quando pioveva il campo diventava un pantano e non era facile giocare, nemmeno a San Siro. In Argentina si sospende quando piove molto, mentre in Italia si gioca sempre, e i giocatori tecnici sono penalizzati”.
Una volta arrivato a Ferrara, non se n’è più andato fino a fine carriera. E’ stato Mazza a non volerla mai cedere, o è stato lei a non volersene andare?
“Petagna mi aveva detto delle richieste che erano arrivate per me da grandi squadre: una volta era la Lazio, un’altra la Fiorentina, e al Milan mi voleva Rocco, che mi avrebbe preso anche al Padova l’anno del mio trasferimento dalla Triestina alla Spal. Mazza mi ha contattato due volte personalmente chiedendomi: “Vuoi andare via”? Con lui c’era sempre il problema dell’ingaggio, ma io tutte le volte gli dicevo: “Se lei mi accontenta, rimango”. Non so se Mazza voleva cedermi, ma ogni anno vendeva qualcuno dei migliori per ragioni di bilancio, e non poteva cedere tutta la squadra”.
Si è mai pentito di non aver lasciato la Spal per un’altra squadra?
“Mai. Non ho rimpianti. Le mie condizioni fisiche non mi avrebbero permesso di giocare al meglio in una grande squadra, perché ciò avrebbe richiesto uno sforzo superiore. A Ferrara, invece, il mio rendimento minimo era comunque accettato, e poi ero il capitano della squadra, e la fascia mi aveva responsabilizzato maggiormente. A Ferrara ho giocato nove anni, otto in A e uno in B, dalla quale siamo subito risaliti dopo la retrocessione dell’anno prima. L’unico rimpianto è stato quando sono andato via dopo l’ultimo anno. Da due anni soffrivo di labirintite (disturbo dovuto a un’infiammazione di una zona dell’orecchio interno chiamato labirinto, responsabile dell’equilibrio generale del corpo: ndr). Se fossi rimasto allenando, forse avrei ripreso a giocare dopo essere guarito, e invece decisi di andare a Treviglio per allenare in C. Non so se sia stata la scelta giusta, ma è andata così”.
Come riusciva a giocare nonostante quel disturbo?
“Per due anni, durante l’intervallo delle partite, mi sono sottoposto a iniezioni di Simpatol, una sostanza che mi tirava su la pressione, perché si abbassava sotto sforzo facendo scattare la labirintite. Avevo timore per la testa, ma i medici mi avevano detto che in un paio d’anni il disturbo sarebbe scomparso, e così è stato”.
Poi è tornato a distanza di anni ad allenare le giovanili della Spal.
“Sì, le ho allenate tre anni smettendo nel ’94. Avevo sessant’anni, ed era giunto il momento di smettere”.
Ha mai pensato di stabilirsi per sempre a Ferrara?
“Sì, ma prima ho dovuto girovagare come allenatore (a Treviso e Messina: ndr), e poi mi sono fermato a Varese per ventidue anni per motivi di famiglia, allenando squadre non troppo lontane (tra le altre, Lecco, Lugano, Novara, Pro Vercelli e Chiasso: ndr).
Dove abitava quando giocava a Ferrara?
“In via Ortigara, dietro lo stadio, in un appartamento al terzo piano. Dal balcone si vedevano le partite, prima che alzassero la tribuna e costruissero la curva”.
Quindi sua moglie la guardava giocare dal balcone di casa?
“Di solito veniva allo stadio, ma tante volte restava a casa per i bambini piccoli, e allora vedeva la partita dal balcone”.
Cosa significa per lei essere cittadino onorario di Ferrara?
“Quando il sindaco (Sateriale nel 2007: ndr) mi ha conferito la cittadinanza, per me è stata una grandissima soddisfazione e una sorpresa. Siamo in pochi ad averla, e ne sono molto orgoglioso, anche perché lì è nata mia figlia”.
Che ricordo ha del pubblico ferrarese?
“Il pubblico merita dieci e lode ed è molto affezionato alla Spal. Appena sono arrivato a Ferrara ho capito che era il mio pubblico, mi ha voluto molto bene e mi ha dato tanto. Ancora adesso sento questo affetto quando torno. A Ferrara ho ancora tanti amici che vedo sempre volentieri: Bozzao, Novelli, Patregnani, Pasetti, Gibì Fabbri… E poi mia moglie è là al cimitero con la mia bambina, nata morta nel ’68: un angioletto”.
Cosa sono Ferrara e la Spal per lei?
“La Spal è la maggior parte della mia vita sportiva, l’amore per la maglia e la città. Quando penso a Ferrara, mi si apre il cuore per l’affetto che la sua gente mi dà”.
Appena saputo del terremoto a Ferrara Massei ci ha richiamato per chiedere di mandare un saluto e un in bocca al lupo a tutta la città e a tutti i ferraresi. Lo facciamo da qui utilizzando anche tre sue sincere parole: “Prego per loro”.