FIMOGNARI, IL PRINCIPE DELLA DIFESA DI DE BIASI, RACCONTA I SUOI TRASCORSI IN MAGLIA BIANCAZZURRA

Era il 1997. Arrivato a Ferrara nell’estate della rivoluzione, dopo l’amara retrocessione in C2 patita contro l’Alzano negli spareggi, voluto fortemente da Roberto Ranzani (che lo aveva avuto a Ravenna) e da mister Gianni De Biasi, Riccardo Fimognari, classe 1970, è stato per tre anni baluardo inamovibile della retroguardia biancazzurra. Con Simone Airoldi ha composto una delle coppie centrali più forti degli ultimi venti anni vista a Ferrara: in porta c’era un certo Andrea Pierobon, il più anziano giocatore ancora in attività, in mediana Fausto Pari, in attacco Emanuele Cancellato e con loro, negli anni, i vari Venturi, Affuso, Assennato, Lomi, Ardeni, Antonioli, Gadda, Logarzo, Vecchi e altri ancora. Erano gli anni dell’orgoglio spallino pronto a rialzarsi, quelli che avrebbero portato la Spal a vincere subito il campionato contro il Rimini della Cocif che sembrava imbattibile. Macché, in Romagna ancora ci pensano a quei settanta punti timbrati in trentaquattro estenuanti settimane. E poi, era il 1999, ecco la Coppa Italia di C, l’ultimo trofeo, l’ultima gioia, vera, conquistata sul campo. Prima degli anni Duemila. Un secolo di lotte e amarezze. Del buio, dei fallimenti e delle retrocessioni, delle faticose ripartenze e dei minimi storici. Riccardo Fimognari, ottantanove partite e un gol in maglia spallina, racconta i suoi trascorsi, la sua vita a Ferrara, i suoi compagni ed elegge il “Cance”, senza ombra di dubbio, uomo spogliatoio, dentro e fuori dal campo, senza nascondere l’amarezza di un addio troppo precipitoso. Oggi, a quarantadue anni da compiere il ventidue novembre prossimo, il principe della difesa spallina racconta ancora con gioia e passione, una delle parentesi più belle della sua carriera. Di una città che ha dato i natali al figlio più grande e di quelle mura che spesso lo vedevano girovagare in bicicletta. Dalla sua Torino, oggi, ha un sogno: tornare, dopo il Centenario, ancora qui, ancora una volta, per far provare anche ai suoi bambini l’ebbrezza di calcare uno stadio che solo a intravederlo salendo le scalette e sbirciando con la coda dell’occhio a sinistra verso la “Campione” porta l’adrenalina a mille. Già, perché il nostro numero sei, adesso, si diverte a fare l’istruttore e scovare nei “piccoli” del Torino calcio i talenti del domani.

Sono passate dodici estati dal giorno del tuo addio, di cose ne sono cambiate veramente tante. C’è un abisso. Quella Spal è fallita, un’altra ne è nata ma, dopo quattro anni alterni, è in fase di giudizio e pochi mesi fa ha subìto l’onta dell’estromissione da tutti i campionati professionistici per problemi finanziari. La resurrezione, stavolta senza Donigaglia come nel lontano 1997, vede protagonista, manco a dirlo, un certo Roberto Ranzani. La Spal, oggi, è in serie D.
“E allora si va sul sicuro. Il Direttore è un uomo di calcio di competenza assoluta, a lui devo il mio arrivo a Ferrara ed è grazie soprattutto a lui che quella Spal è riuscita a centrare molti degli obiettivi che si era prefissata. Ammetto di non essere molto ferrato su quanto accade lì, più per mancanza di tempo che per disinteresse, ho saputo dei problemi che ci sono stati. Non capisco come sia potuto succedere, chi ha permesso che un patrimonio sportivo come il vostro venisse scialacquato così. Sono vicissitudini incredibili, davvero, mi dispiace per la “Campione”, quel muro di gente meritava già allòra almeno la B, non posso pensare che adesso sia costretta ai dilettanti”.

E’ cambiata la Spal, è cambiata la “Campione” e il seguito di gente al “Mazza” ed è, immagino, inevitabilmente diverso anche Riccardo Fimognari. Ci racconti qualcosa di te?
“Dopo l’esperienza con la Spal ho continuato a giocare, ho girovagato un po’, sono stato a Cesena, a Teramo, ho giocato nell’Alto Adige con Luca Lomi e poi, dopo Belluno, ho chiuso, nel 2008 la mia esperienza di calciatore e sono tornato a casa, nella mia Torino”.

E come trascorri le giornate?
“Sono sposato come allòra (ride), ho due figli, il più grande ha quattordici anni, è lui il ferrarese della famiglia nato quando ero lì e ha intrapreso la strada della danza, gli piace tantissimo l’hip hop; il più piccolino, invece, ha dieci anni: per ora vede il pallone da tutte le parti, è al suo ultimo anno nei “Piccoli amici” del Toro e, diciamo così, si diverte, lo alleno io, lo vedo bene come difensore, ha caratteristiche da terzino, poi vediamo. L’importante è che si divertano e stiano bene, tutto il resto passa in secondo piano”.

Riccardo Fimognari allenatore. Hai seguito quindi le orme di alcuni dei tuoi ex compagni.
“Non sono un vero e proprio allenatore. Sono un istruttore quando finisco il lavoro “vero”, in realtà. Insegno, o meglio ci provo, i fondamenti del gioco del calcio ai bambini, l’equivalente dei “Pulcini” che qui a Torino chiamiamo “Piccoli Amici”, nati tra il 2002 e il 2005. Sono ormai quattro anni che collaboro con la società, è un lavoraccio che ti impegna tantissimo ma che dà anche tante soddisfazioni. Facciamo anche il campionato e devo dire che quando li vedi in campo che fanno quello per cui hai tanto insistito durante le settimane prima, è una bella gioia”.

Quanto è difficile seguire questi piccoli calciatori di oggi che non è detto, tra l’altro, lo saranno anche domani?
“Tanto, ma soprattutto è difficile seguire i genitori che, molto spesso, anche se non hanno alle spalle trascorsi di gioco o comunque sportivi, non si limitano a osservare e capire il lavoro dell’istruttore ma si insinuano come a dire che chi c’è, lì, non è adatto a svolgere il mestiere di istruttore. Non lo fanno con cattiveria, per carità, ma vedere nel proprio figlio sempre il talento senza riconoscerne i limiti, o magari, che so, lamentarsi perché ha giocato cinque minuti in meno di un altro che, a loro dire, ha giocato peggio, alla lunga fa del male alla crescita del bambino. Non lo vedi subito, magari, ma mentalmente, dove bisogna formarli a questa età, il rischio di perderli è notevole anche se hanno buone capacità atletiche. Dovrebbero divertirsi di più anche i genitori e lasciare che la natura faccia il proprio corso. Se devi diventare giocatore, stai sicuro, ci diventi. Ma adesso è concesso tutto a tutti, non è più riconosciuta l’autorevolezza di chi è chiamato a decidere, tutti si sentono capaci di poter fare qualunque cosa e meglio di te, a prescindere dall’esperienza ma con la sola presunzione. E’ cambiato tutto, da quando io avevo otto o dieci anni, non solo nel calcio”.

A caccia di talenti, in qualità di istruttore, del Torino del domani ma più per hobby che per lavoro, come dicevi. In realtà di cosa ti occupi?
“Lavoro per conto di un gruppo industriale francese specializzato in nei prodotti di cosmetici e bellezza (la L’Oreal n.d.r.), dove sono io fabbrichiamo i flaconi per lo shampoo. Avevo pianificato il mio ritorno a casa con un impegno lavorativo che potesse darmi qualcosa. Oltre al calcio, nella vita, c’è altro”.

Riavvolgiamo il nastro e rimettiti la sei biancazzurra. A un passo dalle novanta partite con la maglia della Spal, la squadra dove hai giocato di più in tutta la tua carriera, sei andato a segno solo una volta. Te lo ricordi quel giorno?
“Impossibile da dimenticare, quando poi segni sotto la “Campione” non è mica come tutte le altre volte. Giocavamo contro l’Iperzola, vincemmo 2 a 0. L’azione nasceva da calcio d’angolo, ci fu una respinta della difesa, io, come da istruzioni del mister andavo in zona per cercare di prendere le respinte della difesa e tenere alta la squadra, il pallone mi è arrivato giusto per essere calciato e ho segnato. Ah, l’altro gol lo segnò il Cance ovviamente, ogni volta che toccava palla era gol, mamma mia che attaccante”.

Se il “Cance” aveva il compito di finalizzare l’azione, tu e Airoldi, dietro, con Pierobon tra i pali, dovevate evitare che gli avversari facessero altrettanto. E ci siete riusciti spesso.
“E’ stato tutto un insieme di componenti e fattori che ci ha fatto fare bene in quegli anni: la società, i tifosi, il nostro gruppo, quando si dice che si vince e si perde in undici non è una banalità, è veramente così. La fortuna di quegli anni, penso, in parte, sia dovuta all’atmosfera che si era creata tra di noi, dentro e fuori dal campo soprattutto. Eravamo uniti, passavamo serate intere a casa di uno o dell’altro, si chiacchierava fino a tardi, ci piaceva stare tra di noi e, chi l’aveva, con le rispettive famiglie. Sono situazioni che nascono per caso, quando però l’affiatamento cresce, arrivi persino a capirti di più anche in campo, non c’è bisogno di urlare, il tuo compagno sa già cosa deve fare e tu pure. Poi, devo ammettere che io e Simo (Airoldi n.d.r.) ci siamo trovati da subito alla grande insieme, eravamo perfetti, complementari e ci capivamo al volo”.

Con te, in quel periodo, si allenavano anche Braiati (che di lì a poco sarebbe andato al Novara) e Marchini, allòra nemmeno maggiorenni. Oggi sono tornati a Ferrara.
“Di loro ho ricordi piuttosto sbiaditi, lo ammetto, credo che almeno Braiati qualche presenza l’abbia fatta, di Marchini ho seguito la carriera dopo, come quella di Manfredini, un altro ferrarese che all’Atalanta sta facendo bene. Il fatto che siano tornati a casa per cercare di risollevare le sorti della squadra della loro città è un qualcosa che gli fa senza dubbio onore, bravi davvero”.

I giorni più belli trascorsi a Ferrara.
“Da un punto di vista calcistico la conquista della Coppa Italia di categoria, senza ombra di dubbio. Come città invece, mi è rimasto molto, soprattutto i ritmi e le cose più semplici come passeggiare con la bici lungo il perimetro delle mura o la sera, in piazza, ad ascoltare i Buskers. Mi mancano i rapporti che avevo instaurato con tanta gente comune, con i miei padroni di casa che per me e mia moglie hanno fatto tanto, perché sai, quando sei lontano dai parenti, dai nonni, da tutto, qualcosa devi per forza cercare di ricreartelo dove vai e in questo sono stato fortunato. Ho ricordi che vanno oltre il campo e ne vado fiero”.

E quello più brutto?
“Quando non mi hanno permesso di allenarmi con la squadra anche se ero senza contratto e non rientravo nei piani della società. Sono cose che si fanno, dar modo a un calciatore di tenersi in forma è un qualcosa che non crea problemi. Almeno credo. Invece, il diesse Botteghi la pensava diversamente e questo mi ha amareggiato molto. E poi quando sono andato via, quando per l’ultima volta ho visto il cartello che indicava la città di Ferrara, sentivo di essermi lasciato alle spalle una parte importante della mia vita e della mia carriera. Poi, come ti ripeto, a Ferrara è nato il più grande dei miei figli”.

Non hai in cantiere di tornarci a Ferrara?
“Ho un sogno, a dire la verità: vorrei portare i miei bambini lì, al “Mazza”, fargli respirare l’aria di uno stadio importante, vero, mi piacerebbe farli giocare prima di una partita, davanti al pubblico ferrarese, è una cosa che mi ha sempre affascinato vedere i bambini giocare prima di una gara di campionato. Non so se potrò realizzarlo, prometto però che mi metterò in moto e vediamo se con Ranzani e, soprattutto, il Toro riusciamo a fare qualcosa. Potrebbe essere questa una buona occasione per far conoscere ai miei figli una città a cui sono rimasto, come hai capito, molto legato”.

La “Campione”, intanto, è ancora lì: magari quel muro umano si è negli anni via via dimezzato ma l’urlo, quando sale, fa ancora la sua parte e fa sentire la voglia di calcio di questa città.
“La voglia di Spal è un qualcosa che non deve morire, anzi, va trasmesso, va insegnato. Non è solo una squadra di calcio, è molto di più, è storia, è tradizione, è una città che si ritrova la domenica allo stadio. Io l’ho sempre vista così. Spero che l’amore che i tifosi avevano per noi ritorni presto, spero che quei colori tornino dove meritano, pronti a combattere per traguardi migliori. E la città, mi auguro, trovi il tempo di innamorarsi ancora, come un tempo, della Spal. Un affettuso saluto a tutti, in particolare alla famiglia Meloni, a Gianberto e Dana, che tanto hanno fatto per me e la mia famiglia, un abbraccio a Nino della Città del Ragazzo, al suo staff e a tutti i ragazzi di quel periodo che mi porto ancora dentro. Grazie di cuore, Ferrara, di tutto”.

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