Un teatro diverso dagli altri. I colori, i suoni, le emozioni. Il tifo biancazzurro conquista San Siro

Che poi non è sempre così facile descrivere le emozioni. Il sorriso della mia figlia più grande nel parcheggio di San Siro mentre sventola con me il due aste dei Pigs, come lo spieghi? Come si fa a trasferire delle immagini di un istante che però si tatuano addosso alle persone per una vita? Mah, ag vol di brav… Ho perso l’ansia, almeno riferita alla SPAL, non ne capisco il motivo, fiducia, incoscienza, coscienza, non so. Fatto sta che, a parte aprire gli occhi un’ora prima della sveglia, la giornata di domenica l’ho vissuta in serenità (quasi). La pioggia a fare da filo conduttore, come a Pieve di Soligo, ma stavamo andando il un’altra direzione. In Lombardia. Dove? Al Brianteo? No, ma li vicino. Allora stavamo andando al Sinigaglia, con vista sul lago? Macché, nei pressi. Ma dove allora, lassù, fino a Saronno, con un caldo barbino che evaporavano pure i gradoni di cemento? No, non così a nord. Stavamo andando a Milano, stadio Giuseppe Meazza, a San Siro per farla breve. Si alla Scala del calcio, dove sono stati celebrati trentasei (36) scudetti di serie A ed alcune decine tra coppe, nazionali ed internazionali. Mo dit dabòn ? Sì, e non c’era nessun concerto, Bob Marley è morto, non siamo più nel 1980, siamo nel 2017 ed a San Siro giochiamo noi. L’Ars et Labor è tornata.

Dopo la rapina al cancello di ingresso del parcheggio ospiti, la scena è la stessa di mille altre volte, è lo sfondo dietro che cambia. Amici giovani e vecchi a portellone aperto che addentano panini con fette di porco tagliato grosso, brindando a Peroni e Sauvignon. Cento pacche sulle spalle, cento battute tutte uguali, sorrisi e pioggia. Cantiamo mentre ci apprestiamo alla faticosa risalita della torre sud, quella dove viene tenuta segregata la principessa dalla veste bianca e azzurra, gli interisti ci vedono sfilare e ci guardano con supponenza, come se fossero arrivati i Cugini di campagna. Ma noi siamo solo belli, anzi belli come il sole. La verticalità della piccionaia è impressionante, la battuta dei gradoni è fatta per dei piedini da geisha e noi risaliamo, ognuno al proprio posto, le mille balaustre ci inquadrano. La paura dura fino al primo coro, poi, di fronte a noi ci sono uno stadio ed una squadra avversaria, non importano i suoi colori, importano i nostri. Con gli anfibi infangati entriamo alla Scala, ci puliamo le mani nei tendaggi di velluto fine, gli attori devono ancora entrare che noi abbiamo sbaraccato i tavoli dello champagne per stappare bottiglie fuori legge di clinto. Ci soffiamo il naso nelle pellicce delle duchesse imbellettate, giochiamo con il papillon del padrone della fabbrichetta, siamo arroganti nella nostra grezza e struggente bellezza. Non facciamo parte del sistema, lo stiamo cambiando.

I ragazzi in campo sono lo specchio e l’anima nostra che li sosteniamo dall’alto, la vecchia guardia canta e porta la croce, i giovani la seguono, uno dei loro costa come tutta la nostra squadra e questo è bello. E’ la rivalsa del proletariato contro il capitalismo, noi siamo il calcio che conta, il resto è solo business, lustrini, luci della ribalta, pance piene e poca voglia di soffrire. Parere mio, opinabile e parziale, per rivedere una Ovest da trasferta così carica, viva e sfrontata, bisogna ritornare ai cinquemila di Bologna, dall’alto si vedono solo mani che applaudono, battono ritmicamente, il coro della Scala siamo noi, la voglia di esserci e di partecipare ci riempie d’orgoglio. Esatto, orgoglio, come ha descritto molto meglio di me E.T. sui social, quello che prova ogni tifoso ferrarese nel vedere quanta roba siamo, e quanto coraggio abbiamo. Le battaglie non si perdono mai (cit.). Il risultato non conta, non ha nessuna importanza. Noi siamo la S.P.A.L. e giochiamo a calcio, contro tutti. Tutti.

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