Ore 11. Finalmente l’attesa snervante durata venti giorni e una vita è finita. Parto digiuno, mi offrono delle birre chiamandomi per nome, accetto, investigando nei ricordi, luoghi e facce. A passo di bradipo un torpedone biancazzurro di trentadue (credo) pullman. Occhi aperti, volti coperti, liberi pensieri: tensione palpabile ma tutto fila liscio. Dentro al Dall’Ara la prima beffa, una zona cuscinetto tra noi e noi stessi. La Andrea Costa è un bel muro di bandiere. Partiamo benino, ma poi iniziano ad arrivare primi sul pallone (loro), a raddoppiare copiosamente il portatore di palla, a picchiare quando è il momento. Arriva il gol, c’è reazione, un gol annullato, un mezzo rigore. Chiudiamo il primo sotto. Ma siamo vivi.
Ennesima paglia, una birretta. Invocare un dio in cui non ho mai creduto. Al due a zero ci spegniamo, personalmente non riesco più a cantare, fortuna che non tutti reagiamo in egual misura. Non vedo l’ora che l’arbitro fischi. Troppe aspettative disilluse. Troppi “severo ma giusto”. Mi ricorda molto quando alle medie i miei professori: “il ragazzo si applica ma…”. Mi fa più male della prima bocciatura (poi alle altre ci si abitua), ma non si molla di un centimetro perché certe sconfitte possono (e devono) tramutarsi in lauree (vere). La nostra serie A passerà inevitabilmente da un’altra dozzina di sconfitte. Ma lassù dall’alto degli spalti vogliamo vedere sputare sangue per quella maglia. Oggi non ho visto i guerrieri di tante altre battaglie condivise. Ennesima paglia, una doccia, finalmente un po’ di silenzio. Per oggi.