LA SINCERITA’ DI VANOLI: VI RACCONTO I MIEI ANNI ALLA SPAL, GLI ERRORI, GLI UOMINI VERI… MA QUEI COLORI MI SONO RIMASTI NEL CUORE

Rudy Vanoli, indimenticato difensore spallino nel triennio 1992/95, da anni vive a Udine, ed è rimasto nel cuore dei tifosi biancazzurri soprattutto grazie alla sua carismatica personalità. Nel corso della sua carriera, prima da giocatore e poi da allenatore, ha sempre dimostrato di essere un “hombre vertical”, uno che mai rinuncia a essere sé stesso per scendere a facili compromessi. Se questo suo carattere duro e puro può essergli costato qualche occasione, gli ha però consentito di essere sempre stimato e rispettato da tutti coloro che l’hanno incontrato nel suo cammino professionale. Dopo gli ultimi spiccioli di carriera sul campo, Vanoli ha iniziato la sua storia da allenatore in Svizzera, poi ha vissuto una felice esperienza alla guida della Primavera dell’Udinese, seguita da un’annata in Lega Pro con la Colligiana. L’estate scorsa aveva firmato per il Pordenone, ambiziosa compagine di serie D, ma a poche ore dall’inizio del campionato il rapporto con la società friulana si è bruscamente interrotto.

Chi ti ricorda in giro per Ferrara ai tempi della tua militanza spallina, ricorda anche il tuo inseparabile labrador. Hai ancora dei cani?
“Nicolò era un labrador fulvo. Ora di cani ne ho tre: Gino, (il figlio di Nicolò), Ramon, un piccolo meticcio preso in un canile, e un Jack Russel di nome Spritz, come l’aperitivo”.

Cos’è successo a Pordenone l’estate scorsa?
“C’era un progetto importante, ma ci vuole tempo a far crescere il sistema, e io e la dirigenza avevamo idee diverse. Oggi è un calcio malato, è difficile fare programmi, perché devi fare subito risultato. In Italia manca la qualità del lavoro e danno patentini da allenatore a chiunque”.

Il tuo primo anno alla Spal è stato quello della serie B (1992/93). Quali sono state le cause della retrocessione?
“Donigaglia aveva fatto degli investimenti importanti, ma non basta prendere una Ferrari se non sai usarla. Prima di Natale ci fu un incontro tra la società e i tifosi dietro la curva. Io mi ero esposto tantissimo per difendere la Spal in quanto espressione della città, perché, se c’è qualche critica da muovere, dev’esserci una sinergia incredibile tra tutte le parti per superare insieme le difficoltà. A Ferrara, invece, la società aveva pensato che, dopo aver investito, poi toccasse semplicemente ai giocatori. Noi eravamo dei buonissimi giocatori, ma ognuno si muoveva da solo. Un mio grande maestro, Carletto Mazzone, diceva: “Io penso, voi pensate a correre”. Noi eravamo una squadra di pensatori. G.B. Fabbri, grande persona, viveva del suo passato, ma il calcio stava cambiando, non solo sotto l’aspetto tecnico e tattico”.

Quali altri aspetti stavano cambiando?
“C’erano nuove metologie di preparazione, con strumenti medici all’avanguardia e studi aggiornati sull’alimentazione, ma la società non aveva saputo creare una struttura adeguata”.

Il tuo secondo anno spallino è finito con lo spareggio promozione perso col Como, dopo la semifinale vinta col Bologna. Che ricordi hai di quell’anno e di quelle partite?
“Discepoli, persona meravigliosa e allora giovane tecnico, aveva in mano una squadra rifondata su chi aveva un cuore e un’anima, e lo spogliatoio era tornato, grazie a gente come Mezzini, Zamuner, Bottazzi. Si era creata una sinergia unica coi tifosi che ho amato tanto. I due derby della semifinale playoff vinta col Bologna ci avevano tolto tante energie. Prima della finale, il presidente del Como, che avevamo battuto sia all’andata sia al ritorno, disse che c’erano sei miliardi per chi andava in serie B, e che sarebbe stato bello regalare un miliardo a chi perdeva la finale. Donigaglia reagì denunciandolo, e la società decise di portarci in ritiro dal giovedì. Fu un errore, perché eravamo stanchi, e quel ritiro fu pesante. Eravamo sempre fra di noi, non vedevamo l’ora che arrivasse la partita, e questo ci tolse ancora qualcosa. Nella finale, Cesare (ndr: Discepoli) mise in campo una formazione per rendere merito ai vecchi spallini, ma qualcuno di noi doveva rimanere fuori. Regalammo il primo tempo, mentre nel secondo andammo meglio. Ci annullarono un gol ingiustamente, e verso la fine, in dieci, Bizzarri in contropiede non diede la palla al centro a Mezzini, sprecando una grande occasione per pareggiare. Tale circostanza fece capire a tutti i limiti di questa persona. L’amarezza fu grande, perché non riuscimmo a coronare un percorso importante, riportando la squadra alla categoria che le competeva”.

Il terzo e ultimo anno la Spal fu la prima esclusa dai playoff. Quali errori furono commessi?
“Eravamo partiti benissimo (ndr: otto vittorie e due pareggi nelle prime dieci giornate). Poi, la stampa bolognese si mise a cercare cavilli per creare malumori in casa nostra, e ci riuscì. Dicevano che Vanoli e Codispoti non spingevano, ma non era vero. Oltretutto, io non ero ancora in condizione: se ci entravo, figurati! Un giornale di Ferrara parlò di “ Dubbio Vanoli”. Io andai da Cesare e gli dissi: “Il dubbio te lo risolvo io: fai pur giocare Paolone!”. Cesare negò, ma qualcuno aveva fatto uscire quella voce dallo spogliatoio, io mi arrabbiai moltissimo e non giocai la partita col Carpi e quella successiva col Bologna. La Spal vinse facile la prima in casa 3-0, ma poi perse 2-0 la seconda fuori, e lì iniziò la crisi. Si era rotto il giocattolo, spezzato l’incantesimo. Rientrai a Fiorenzuola, dove vincemmo 1-0. Di lì a poco arrivò la partita di Alessandria, dove si era verificata qualche tempo prima un’alluvione devastante. Il Bologna aveva chiesto di giocare la sua partita in campo neutro a Piacenza, e la vinse. La domenica dopo toccava a noi giocare la prima partita nello stadio appena riaperto dopo l’alluvione. Io andai in società (avevo trent’anni e una certa esperienza di come vanno certe cose), e dissi che secondo me avremmo dovuto chiedere anche noi il campo neutro, altrimenti avremmo perso, perché a livello mediatico e politico avrebbero cercato di favorire la squadra di casa. Mi risposero: “Ma no, Rudy, cosa dici”? Perdemmo, e Discepoli fu esonerato. Noi giocatori scrivemmo una lettera alla società per tutelare l’allenatore, ma il martedì venne presentato Guerini (io ero uno dei pochi che lo conosceva). Donigaglia mi disse che quella lettera era molto brutta: gli risposi che non l’avevo scritta solo io. Col Prato, Guerini non mi aveva fatto giocare dall’inizio, poi entrai e lui disse: “Voglio giocatori come Vanoli”! Si stava però verificando ciò che si era capito: non c’erano giocatori in grado di reggere il colpo di giocare nella Spal. Avevamo diciannove punti di vantaggio sulla prima squadra fuori dalla zona playoff, ma Guerini impostò una nuova preparazione. Perdemmo la finale di Coppa Italia col Varese, squadra di C2, e io e Zamuner andammo in delegazione da Guerini, dicendogli che vedevamo una squadra impaurita e una preparazione sbagliata. Lui disse di stare tranquilli, perché era basata sui playoff. All’ultima giornata andammo a Pistoia, a giocare una partita da dentro o fuori, e perdemmo, lasciando a loro l’ultimo posto utile per i playoff. Io, Paramatti e Zamuner fummo ugualmente chiamati sotto la curva dai tifosi che volevano salutarci”.

Era venuto il tempo di dire addio alla maglia biancazzurra.
“Ero un giocatore scomodo, ma la società doveva capire che bisognava dare retta agli uomini, e in quella squadra ce n’erano tre o quattro, mentre gli altri badavano al proprio tornaconto”.

Quali altri compagni di allora metteresti tra gli uomini veri, oltre a quelli che hai già citato?
“Con Brancaccio e Lancini, ad esempio, sono ancora in contatto. Credevamo molto in quella maglia, e avevamo lo stesso concetto del calcio e della vita”.

Che caratteristiche deve avere un giocatore per essere “da Spal”?
“Botteghi, che conosco dai tempi del settore giovanile dell’Udinese e mi ha portato alla Spal, vedeva giocatori dell’Est per conto della società friulana e, quando ne vedeva uno che gli piaceva, mi diceva: “Questo è forte!”, ma giocare nella Spal è un altro conto. Se giochi in casa nell’Albinoleffe e perdi o pareggi, va bene, ma se giochi nella Spal c’è lo stress, la paura, e rischi di fare brutta figura. I grandi club hanno bisogno di grandi uomini”.

A Ferrara eri considerato un leader: perché, secondo te?
“Come ti dicevo, fin dal primo anno mi sono esposto molto, coi tifosi e la società. All’inizio sono stato frainteso, poi, a distanza di tempo, hanno capito che le mie parole non erano a difesa del singolo, ma di tutto l’ambiente della squadra, e godevo di grande credito personale”.

Qual è la squadra cui ti senti più legato?
“Le mie squadre sono tre: Lecce, Udinese e Spal. A Ferrara ero un calciatore maturo, che vedeva il calcio in maniera diversa. Provavo, e provo tuttora, un grande affetto per quella squadra. Andare alla Spal era emozionante”.

Dal 2007 al 2009 hai allenato la Primavera dell’Udinese, conquistando la semifinale scudetto. Com’è il modello Udinese?
“La Primavera dell’Udinese è diversissima da tutte le altre. Quando c’ero io erano tutti stranieri, avevano differenze culturali pazzesche, e interagivo con loro avendo frequenti colloqui. Ho fatto crescere Asamoah, Isla e tanti ragazzi che ora sono in A, o minimo in Lega Pro, come Migliorini. Se una società vuole diventare importante con un progetto, ci vogliono almeno due anni, non sei mesi. A Udine tutti gli anni arrivano, ad esempio, ragazzi norvegesi abituati a vivere in una terra quasi senza luce, e brasiliani abituati a un gran caldo. Se vuoi che rendano, devi dare loro del tempo, e farli sentire a proprio agio. Appena arrivati in Italia, non giocano una partita vera per sei mesi, ma poi i risultati si vedono”.

Oggi molte società puntano sui giovani, ma che differenza c’è tra un buon allenatore delle giovanili e uno della prima squadra?
“Le società devono guardare i bilanci, allestiscono squadre con giovani e devono trovare un allenatore che sia in grado di farli giocare. Io ho studiato e lavorato allo stesso tempo. Quando un allenatore è bravo, lo è sia nelle giovanili sia in prima squadra. Quando sento dire il contrario, mi viene da ridere, e penso ad esempio a Guardiola, passato dalla seconda alla prima squadra del Barcellona, o a Luis Enrique, che  ora allena la Roma. Dalla Primavera dell’Udinese a una prima squadra non c’è un grande passo. Quando c’erano degli infortunati, me li mandavano dalla prima squadra per recuperare giocando con la Primavera, e la cultura del lavoro che acquisisce chi allena in quell’ambiente lo rende in grado di allenare ovunque”.

Qual è la tua idea di calcio?
“Le mie squadre sono molto determinate, ma corrette. Non tollero gli isterismi, il calcio dev’essere allegria unita a serietà e impegno. E’ una lezione che ho appreso da grandi maestri come Fascetti e Mazzone. I giocatori sentono la qualità e la forza dell’allenatore, non serve urlare. L’educazione sportiva in un club è fondamentale. Un atleta deve sapersi muovere nella società, come calciatore e nella vita, seguendo un processo didattico di crescita generale come quello di cui parlavo prima”.

Negli ultimi anni si è parlato di te come allenatore della Spal: c’è stato qualcosa di vero, e verresti volentieri?
“C’erano persone che volevano farmi incontrare con la società, ma non è mai successo, e non mi è stato mai chiesto di allenare la Spal, ma mi piacerebbe ricreare quell’entusiasmo che c’era ai miei tempi”.

 

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