I RETROSCENA, LA SINCERITA’ E LA ROMANITA’ DI FABIETTO LUCIDI

Se uno spallino che segue la propria squadra da almeno un paio di decenni sente pronunciare “Fabietto”, i casi sono due: o ha un figlio piccolo con quel nome, o la mente torna a Fabio Lucidi, attaccante dall’indiscusso talento che ha vestito la casacca biancazzurra in due fasi, con alterne fortune, all’inizio ed alla fine degli anni novanta. Se poi davvero si ha un figlio piccolo che si chiama Fabio e ci si rivolge a lui con quel vezzeggiativo, l’associazione è inevitabile: ciò, ad esempio, capita al sottoscritto, ma queste sono storie personali, di nulla rilevanza per i lettori di questa rubrica. Il discorso si fa invece interessante se si parla del mai dimenticato Fabietto originale, ed è per questo che siamo andati a cercarlo per farci raccontare la sua storia.

Cominciamo dal presente: quali sono le tue attività attuali?
“Ho un negozio Roma Sport, che vende solo articoli sportivi ufficiali della Roma, e da cinque anni alleno nell’Eccellenza laziale, attualmente al San Cesareo, poco fuori Roma”.

Quella per la Roma è la tua grande passione. Quando capito nella tua città e prendo un taxi, trovo spesso la radio sintonizzata su una di quelle emittenti che parlano solo di Roma e Lazio tutto il giorno. Ma non è un po’ troppo?
“Devi pensare che la radio vuol dire business. A Roma si vive della propria squadra, c’è un’identità molto sviluppata. Che ci vuoi fare? Siamo rimasti ai tempi delle legioni, siamo rincoglioniti e poi, diciamocelo, la vita a volte ti offre poco altro. Allora ascolti le radio che riportano anche gli spostamenti dei pensieri che escono dagli spogliatoi, sfruttando l’unico tifoso puro che è rimasto: quello che chiama in trasmissione”.

Ora le curve di Roma e Lazio sono molto politicizzate e spesso i derby vengono giocati in un clima pericoloso. Era così anche quando eri ragazzo?
“La Sud (la curva della Roma: ndr) era identificata di sinistra perché parlava di proletariato, di gente di strada, ed era un piacere stare lì. Sono affezionato a un Olimpico “in bianco e nero”, dove arrivavi tanto tempo prima per trovare posto; ora non vado più allo stadio, e arrivo addirittura a dirti che la curva Sud non esiste più, perché non mi rappresenta, come nemmeno questa società. La Roma non può fare il compromesso storico con Giraudo e Galliani: dev’essere l’anti-potere, quella penalizzata dagli arbitri!”.

Cosa pensi della tessera del tifoso?
“Quello che pensano tutti i tifosi. Non esiste che debba essere schedato prima di aver commesso qualcosa, e non la faccio”.

Quando senti nominare la Spal, a cosa pensi?
Fabio fa una lunga pausa, poi tira un sospiro e parla.
“Eh, penso al mio più grande rimpianto! La prima volta sono arrivato che ero troppo giovane, poi sono tornato quando ero troppo in là con gli anni, e non sono riuscito a dare quello che volevo. In quel poco, però, qualcosa di buono c’è stato, se ancora i tifosi mi ricordano con affetto: certe giocate le avevo nel dna!”.

Cosa ti è rimasto più impresso degli anni a Ferrara?
“La cosa più bella era che giocavi nella squadra che rappresentava la città. Ricordo che andavo allo stadio a piedi, e vedevo genitori e figli con le bandiere biancocelesti”.

Guarda che non siamo mica la Lazio!
“Hai ragione: biancazzurre! Ah, ah! Meglio così, mi sento più a mio agio!”.

Verona, 16 giugno 1991: cosa ricordi?
“Eh, lo spareggio vinto per la promozione in C1! Ricordo una fila infinita di macchine dietro il nostro pullman, che era seguito da una città. Una cosa stratosferica, così come lo è la piazza di Ferrara. Ricordo che subentrai nel secondo tempo e ci fu una festa grandiosa”.

Poi perché non fosti riconfermato?
“La leggenda dice che non rientravo nei piani tecnici dell’allenatore, Gibì Fabbri. Ero arrivato da protagonista, ma all’inizio non feci bene, anche a causa di ripetuti acciacchi. Poi mi ripresi, ma al termine del campionato Botteghi mi disse di trovarmi un procuratore e di cercarmi un’altra sistemazione, perché non poteva contrastare la volontà della guida tecnica. Comunque non porto rancore a nessuno: Fabbri rimane un maestro, e ogni allenatore ha il diritto di fare le proprie scelte. Fu un peccato, anche perché ero appena arrivato al Nord”.

Quali differenze hai trovato, giocando a entrambe le latitudini?
“Il Sud l’ho vissuto in lungo e in largo, e posso dire che la C è l’inferno, perché la pressione è costante, ma sono cose che fortificano, e io non mollavo mai”.

Dopo la prima parentesi a Ferrara, proprio dal Sud ripartì alla grande la tua carriera.
“Sì, a Siracusa era uno sfacelo, ma Papadopulo mi portò in B all’Acireale e mi fece scoprire un altro lato del calcio, il più bello: la serie B è un mondo fantastico! Vi giocai due anni ad Acireale, e poi tre ad Ancona, dove diedi il meglio”.

Secondo te, perché non hai mai giocato in serie A?
“Mi sono giocato male la chance. C’era la possibilità di uno scambio con Bonazzoli del Brescia, ma io stavo bene ad Ancona, avevo un rapporto particolare con la città e i tifosi, e non presi in considerazione la trattativa. Visto il livello, al giorno d’oggi in serie A ci arriverei da solo, e non con uno scambio!”.

Te ne sei mai pentito?
“No. A distanza, capisci che certe scelte vanno fatte col cuore. Anche se poi le cose ad Ancona non proseguirono bene. Pagai di persona certe situazioni societarie e tornai a Ferrara. Il grande Ranzani e Donigaglia vollero investire su di me, ma De Biasi non mi voleva. Lo seppi solo a fine anno dalla società, perché lui non me lo disse mai. A quel punto feci il diavolo a quattro per andare via perché pensavo che Ferrara non facesse per me, anche se avevo vinto un campionato e una Coppa Italia di serie C. Non rendere mi innervosiva. Ho avuto tanti infortuni, anche a causa di quell’umidità che mi entrava nelle ossa. Me ne sono sempre capitate di tutti i colori: pensa che mi sono perfino rotto il setto nasale una settimana prima di andare via! Donigaglia, però, voleva che rimanessi, e così cominciai la stagione successiva con D’Astoli. Con lui ho avuto un rapporto schietto e sincero, ma a gennaio andai via. Mi disse di tutto dopo una prestazione al rientro da quaranta giorni di inattività. Io gli risposi che non poteva aspettarsi il massimo, visto che ero appena rientrato, e che potevo anche andar via, se lo voleva. Lui mi disse che sarebbe stato meglio, così me ne andai”.

E tornasti nella tua città, Roma, per chiudere la carriera.
“Sì, con la Lodigiani (ora Atletico Roma: ndr) giocai tre anni “da paura”, e presi la rivincita nei confronti di chi mi credeva finito e non era stato sincero con me”.

Ti rivedi in qualche giocatore di oggi?
“Guarda, tutti questi soldi ti fanno perdere qualsiasi valore, ma se devo dire un giocatore, allora dico Burdisso tutta la vita, per la voglia di metterci tutto”.

Cosa pensi del calcio giocato attuale?
“Mi ci sarei sposato a meraviglia. La scuola Sacchi sta morendo: negli anni novanta si praticava un calcio fatto solo di schemi bloccati, e veniva fatta la guerra a gente come Baggio, mentre oggi non è più così, e si può scegliere tra molti schemi diversi. E’ particolarmente importante  l’organizzazione difensiva, mentre davanti viene lasciata più libertà d’interpretazione. Con gli allenamenti di oggi puoi tranquillamente fare le due fasi con tutti i giocatori”.

Come giocano le tue squadre?
“Anch’io curo molto la fase difensiva, tant’è vero che subiamo pochi gol, e davanti non blocco nessuno”.

Si dice che tu abbia mantenuto il tuo carattere sanguigno anche in panchina: grinta, deteminazione, rabbia, passionalità. E’ vero che spesso sei costretto a seguire le gare dalla tribuna?
“Quest’anno sono migliorato. Comunque, il problema è che aver giocato ad alti livelli mi porta a cercare un confronto sereno con la terna arbitrale, ma non posso avere risposte, perché anche gli arbitri sono a livello dilettantistico, e quindi s’indispettiscono subito”.

Allora è meglio essere sanguigni o calmi per allenare?
“La freddezza in un allenatore non deve mai venir meno”.

Quale allenatore ti ha insegnato di più?
“Paolo Lombardo, che voi conoscete, è stato senz’altro il mio maestro. La sua passione è fuori dal comune. All’inizio della mia carriera ho appreso i suoi meccanismi perfetti, soprattutto in difesa, andandolo anche a trovare a Siracusa, per osservare i suoi allenamenti coi ragazzini. Ancora adesso è un punto di riferimento importante e, quando ho dei dubbi, lo chiamo”.

Anche lui non ha avuto molta fortuna a Ferrara. Cosa fa adesso?
“Ogni volta che lo sento è dentro o fuori dalla società, ma è sempre a Siracusa. C’è però da dire che la Ovest gli ha dedicato uno striscione a tutta curva, e questo non è successo con molti allenatori. Quel gruppo di giocatori poteva fare di più per salvarlo, e Gibì ha finito il lavoro impostato da lui, portando la squadra in C1”.

Com’è allenare nei dilettanti?
“Non devi pensare ai dilettanti del Lazio come a quelli delle vostre parti. Qui s’investono tanti soldi e il fattore ambientale incide. Ci sono mille problematiche e non c’è lo spirito che si trova in alta Italia. Non ci sono sicurezze contrattuali, si vive alla giornata e da un momento all’altro si può essere mandati via. La società è pressante, ma non mi fa nè caldo nè freddo, perché bisogna essere tarati a sopportare. Il mio vanto è quello di aver finora sempre finito i campionati”.

Hai l’ambizione di allenare tra i professionisti?
“Sì, certo, mi piacerebbe molto allenare su palcoscenici più importanti. In quel caso, mia moglie, che già mi aiuta quando non ci sono, si occuperebbe del negozio. Ho anche due figli: Giulia e Simone, rispettivamente di diciassette e dodici anni. Entrambi hanno frequentato la scuola a Ferrara quando stavo là, grazie all’aiuto di Doretta Preti, una tua collega che aiutava le famiglie dei calciatori in queste situazioni, e alla quale vorrei rivolgere un saluto”.

Quali squadre ti piacerebbe allenare, per una questione affettiva?
“Eh, una tra Ternana, Ancona e Spal. La Ternana perché è la squadra di mio papà, da bimbo ho viste tante partite con lui, e il mio sogno di giocare con quella maglia non si è mai realizzato. L’Ancona perché là ho vissuto i miei anni migliori da calciatore; adesso è finita in Eccellenza, la stessa categoria dove alleno io, ma sposta sempre tanti tifosi, e questo ti fa capire che l’amore per la squadra non morirà mai, perché non dipende dalla categoria. Sono anche molto legato alla città e alle persone di Ferrara, e chissà che un giorno mi riesca di dare alla Spal, da allenatore, quello che non ho potuto darle da giocatore!”.

 

 

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