ALL’INFERNO E RITORNO. LA STORIA DA LEGGERE E LE PAROLE DA MEMORIZZARE DI MAURIZIO BRANCACCIO, PORTIERE SFORTUNATO E PERSONA VERA

Una doverosa premessa. Questa non è la solita, interessante intervista all’ex di turno. No. Questa è una lunga chiacchierata tra il nostro Sergio Ravani e l’uomo Maurizio Brancaccio che, per i temi che normalmente trattiamo, è soprattutto un portiere della Spal di qualche stagione fa. Una chiacchierata tutta da leggere proprio come le parole dell’ex numero uno biancazzurro che qui racconta senza censure il dramma che ha vissuto oltre, ovviamente, a ricordare della sua Spal, di Ferrara, della sua attuale esperienza con Buglio a Casale, di Marongiu, del tifo spallino e anche di qualche talento che consiglia al club di Butelli.rima, però, c’è la sua storia. Insisto: una storia che non si può non leggere. (et).

“All’inferno e ritorno”. Potrebbe essere questo il titolo della storia di Maurizio Brancaccio, l’indimenticato portiere spallino della sfortunata ultima apparizione dei biancazzurri in serie B nella stagione ’92/’93, nonché nel biennio successivo in C1. Anche se i suoi anni ferraresi sono stati un’altalena di gioie e delusioni, però, il titolo è riferito alla sua vicenda umana, contrassegnata negli anni più recenti da immani sofferenze e da un grande riscatto finale. Una di quelle storie che fanno riflettere sul  senso delle cose e mettono a fuoco le vere priorità della vita.

Ricordi la tua prima volta a Ferrara? Era l’8 dicembre 1991, si giocava Spal-Casale, e tu difendevi la porta dei nerostellati.
“Fu una domenica speciale. Finì 1-0 per la Spal con un eurogol di Lancini, e parai anche un rigore a Zamuner. Conservo ancora una foto di me che prendo il gol sotto la curva Ovest. La Spal era la grande squadra che aveva vinto l’anno prima la C2 e stava dominando anche la C1. Lo stadio era stracolmo, c’erano tanti giornalisti della carta stampata e della tv; era calcio vero ed era una bella emozione, difficile da vivere in C”.

Quando hai saputo dell’interessamento della Spal? E’ vero che fu frutto delle tue grandi parate contro i biancazzurri?
“E’ vero che feci un’altra grande prestazione anche al ritorno (ndr: 2-2 con due gol in rimonta di Beppe Brescia), ma l’interessamento non era legato a due sole partite, perché la Spal mi stava seguendo da tempo. Ne venni a conoscenza subito dopo la fine dello spareggio che perdemmo a Piacenza contro la Pro Sesto, e che segnò la nostra retrocessione, dopo un girone d’andata importante e uno di ritorno disastroso. Ovviamente diedi subito la mia priorità alla Spal”.

Ti va di ricordare a ruota libera i tuoi anni a Ferrara?
“Con vero piacere, perché a Ferrara ho lasciato il cuore, ed è stata la piazza più importante in cui ho giocato. Anche fuori dal campo avevo tanti amici, e alcuni li sento ancora. Ricordo il clima fantastico fino a quando c’era Gibì Fabbri. Quando sono arrivato, il gruppo era molto unito; lui era il top nel crearlo fin dal ritiro, e poi con le memorabili cene a casa sua. L’errore più grande è stato smantellare quel gruppo, perché era vincente, e doveva rimanere, con qualche ritocco. Per far bene, occorreva gente che aveva fame, e non gente dalla serie A”.

Se dovessi scegliere il momento più felice e quello più triste di quegli anni sul campo?

“Il momento più bello è stato la vittoria a Bologna davanti a quarantamila spettatori. Loro pensavano di essere superiori, ma è finita diversamente. I momenti più brutti sono stati due. Uno è lo spareggio col Como, dove siamo stati puniti dagli episodi ma, se l’avessimo giocato altre dieci volte, l’avremmo sempre vinto, perché eravamo troppo superiori. L’altro è l’ultima partita, sempre a Verona, che ha segnato la nostra retrocessione dalla B. Ricordo che nel secondo tempo apparve sul tabellone luminoso il risultato di Andria che ci condannava; non era certo imprevisto, ma noi stavamo vincendo e fu una doccia gelata, anche per tutta quella gente sugli spalti che era venuta da Ferrara”.

Parliamo dell’anno disgraziato della B. Eri partito titolare, poi è stato ceduto Torchia, uno degli idoli della doppia promozione, col quale hai pagato il dualismo. Nello scambio è arrivato Battara e ha giocato lui (facendo non bene) fino al tuo ritorno nelle ultime cinque giornate, con l’avvento di Discepoli in panchina. Come hai vissuto quell’anno così caotico?
“A Ferrara ero arrivato perché mi aveva voluto l’allenatore, Gibì Fabbri, che mi aveva fatto esordire subito in campionato. Con Torchia avevo un ottimo rapporto, e avevo anche diviso la stanza nel ritiro estivo, ma è stata dura, perché il dualismo non è stato gestito bene, e l’ho pagato anche negli anni successivi. Togliere un idolo della curva dopo due campionati vinti non è stata una bella mossa”.

Molte altre cose furono sbagliate quell’anno.
“La società non ha avuto calma, non ha saputo aspettare senza illudere, e non doveva pensare di vincere subito il campionato. Potevano dire di puntare a un torneo tranquillo, tanto c’era entusiasmo, il record d’abbonamenti; invece hanno puntato sui grandi nomi, i risultati non arrivavano, e per zittire la piazza esigente compravano altri nomi da categorie superiori. Così sono venuti i casini. Eravamo talmente tanti che non riuscivamo neanche a fare le partitelle in allenamento, e qualcuno è finito fuori rosa. Io ho pagato la mancanza di tranquillità, e ho perso il posto dopo aver giocato tre partite”.

Come andarono poi le tue due stagioni in C1?
“Negli anni successivi non c’era equilibrio su di me: o ero un idolo, o ero il primo a essere contestato. Il primo anno ho giocato quasi sempre, a parte poche partite, e il rapporto con la piazza era di amore e odio. L’ultimo anno era il migliore, avevo la media voto più alta della squadra dopo Bizzarri, poi è arrivato l’esonero di Discepoli in seguito alla sconfitta 3-1 ad Alessandria. La settimana successiva, con Guerini in panchina, abbiamo perso in casa e la gente se l’è presa con me. Guerini è andato dietro alla piazza, e il danno maggiore me l’ha fatto lui, togliendomi senza motivo. Ha gestito male lo spogliatoio, togliendo anche Zamuner e altri giocatori importanti e mettendosi tutti contro. Io avevo una richiesta della Roma, ero un capitale della società e Boschin non aveva fatto bene: la logica diceva che avrei dovuto giocare, invece no. Sappiamo tutti com’è finito quel campionato. Poi lui è stato riconfermato, mentre i giocatori no, ma l’anno dopo è stato mandato via dopo poche partite”.

Sei stato costretto ad andartene pure tu.
“Ero rimasto senza squadra, ma a quei tempi non c’era ancora lo svincolo automatico a fine contratto per i calciatori. C’erano i parametri, calcolati in base all’età, alla categoria e all’ingaggio. Il mio parametro era alto, la Spal aveva il diritto di chiederlo, ed era come se detenesse il mio cartellino. Sono rimasto al minimo di stipendio fino a novembre, quando sono andato in C2 a Varese, dove ho trascorso cinque anni importanti, con una promozione in C1. Poi è venuto l’Alzano, sempre in C1, dove ho fatto bene per due anni. Ero nel pieno della maturità e molto considerato, non solo in categoria, tant’è vero che ho rifiutato un rinnovo biennale ad Alzano perché sembrava che dovessi finire in B, a Cesena o Terni. Invece poi sono rimasto a casa io, per via di promesse non mantenute.  Subito dopo mi sono ammalato e ho dovuto lasciare il calcio. Il giorno del mio primo ricovero in ospedale mi chiamavano le società, e io prendevo tempo. Avevo tentatré anni, ero nel mio momento migliore e potevo finire al Catania in B”.

Ti va di parlare della tua malattia?
“Certo, non ho alcun problema. Mi hanno diagnosticato un linfoma non Hodgkin, una malattia del sangue della famiglia delle leucemie che attacca le ghiandole linfatiche. Nell’ottobre del 2002 ero più di là che di qua. Ho cominciato con la chemioterapia, ma per due volte nel giro di pochi mesi ho dovuto ricominciare daccapo, perché il problema saltava fuori in un’altra ghiandola. La mia unica speranza era trovare un donatore di midollo osseo o di cellule staminali, e a luglio 2003 mi sono iscritto alla banca dati mondiale, perché in famiglia non avevo alcun donatore compatibile. Mentre ero ancora in terapia, sono stato colpito da setticemia, una brutta infezione causata dall’insufficienza venutasi a creare nelle difese immunitarie, e mi hanno detto che non c’era più niente da fare. A febbraio 2004 non c’è più la malattia, senza spiegazione, e viene trovato un donatore americano per il trapianto. Io non lo volevo fare, perché pensavo che non sarei sopravvissuto, ma mi hanno messo in condizione di farlo. A settembre 2004 ero in isolamento totale all’ospedale di Genova. Avevo spesso la febbre. Per leggere un libro, dovevano prima sterilizzarlo, e me lo davano dopo quindici giorni. Non potevo avere penne, né bottiglie d’acqua, e anche il cellulare e il pc erano sterilizzati. Sono uscito a fine 2004, e poi fino ad aprile 2005 dovevo tornare tutti i giorni a Genova per una terapia preventiva contro le infezioni in day hospital. Andavo in giro con la mascherina, non potevo mangiare e toccare certe cose. Partivo da Casale, dove abito, alle sette di mattina. Arrivavo in ospedale dopo un’ora o poco più, mi siedevo, mi attaccavano la flebo e rimanevo così mezza giornata. Ora vado ad un controllo all’anno, ma devo costantemente sottopormi ad esami periodici”.

Cosa cambia nella vita, quando succede quello che è successo a te?
“Ti rendi conto che prima te la prendevi per delle cose assurde. La vita è la cosa principale. In ospedale guardavo dal vetro, vedevo le persone che passeggiavano e dicevo: “Guarda come stanno bene”!

Da dove si prende la forza per andare avanti e venirne fuori?
“La forza pensi di non averla, ma ce l’hai, la trovi. Poi mia moglie Simona e mia suocera, che è mancata durante la mia malattia, mi sono state molto vicine, e anche il pensiero delle mie due figlie, Martina e Carlotta, che ora hanno 15 e 11 anni, mi ha aiutato molto”.

Sono svaniti del tutto i tuoi timori?
“Vivo ancora con la paura. Ogni volta che ho la febbre o le ghiandole tremo, ma ho una vita normale, faccio tutto”.

Ora alleni i portieri del Casale. Come sei rientrato nel mondo del calcio?
“Nell’estate del 2005 mi hanno chiamato e ho detto sì. Abito vicino, e vado al campo a piedi”.

Lavori a stretto contatto con Buglio, che fu trainer spallino nell’era Tomasi.
“E’ l’allenatore giusto per noi, per cercare di raggiungere la salvezza. E’ un motivatore, molto determinato, e pian piano i risultati si stanno vedendo”.

E poi hai occasione di vedere tutti i giorni Marongiu. Perché fatica a trovare posto in squadra?
“E’ un ragazzo di grandissime qualità. Ha colpi, calcio, cambio di passo, ma a livello di carattere si è lasciato un po’ andare, e deve mettersi in testa che deve dare qualcosa di più. E’ giocatore vero, e può ambire a categorie superiori, ma non ha la cattiveria giusta, e se non metti determinazione e corsa, soprattutto in una squadra che deve salvarsi, fai fatica. Con noi c’è anche un altro che ha avuto qualcosa a che fare con la Spal: il nostro portiere Gomis. Ma cos’ha combinato a Ferrara?”.

Beh, è un ex atipico. Fu prelevato dalla Spal in prestito dal Torino nell’estate del 2008, ma poco dopo il suo arrivo lasciò la squadra per tornarsene da dove era venuto. Le cronache di allora parlarono di nostalgia di casa… Come sta andando?
“E’ con noi da gennaio. Con le qualità che ha è un predestinato, se trova equilibrio dentro di sè. Era quattro anni che non giocava, e questa è la sua ultima chance di dimostrare quanto vale. Con lui devo fare un po’ lo psicologo; per ora mi sta seguendo, e sta giocando bene da titolare. Gli ho detto: “Ma ti rendi conto di cosa vuol dire andare via da Ferrara”? E lui mi ha risposto: “Ho sbagliato!”

Certo che fra te e lui, in termini caratteriali, c’è la stessa differenza che passa tra Zoff e Grobbelaar.
“Ah, ah! Sì, è vero. Spesso i portieri sono molto seri o un po’ matti”.

C’è uno dei vostri giovani che consiglieresti alla Spal per il prossimo anno?
“Siega è un esterno destro del ’91 molto bravo”.

Segui sempre la Spal?
“L’occhio cade sempre sui risultati la domenica sera. Recentemente l’ho vista in tv, e quella gradinata vuota era desolante. Una piazza così è difficile trovarla, perché la squadra è dentro la gente, e basta poco per ritrovare l’entusiasmo, che ai miei tempi era impressionante, soprattutto in curva. A Ferrara, se riesci a ricrearlo, riempi lo stadio. Un amico trascina l’altro, le partite diventano importanti, e ci vuole un attimo. Lo spero, perché sono un tifoso della Spal”.

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