Attorno al pallone 2009-10

ATTORNO AL PALLONE

ATTORNO AL PALLONE. All’estero i ragazzi giovani capaci giocano titolari già a diciotto anni. Qui da noi no. Trovare un ragazzo nato nel settore giovanile in prima squadra è un’impresa. A parole puntano tutti sul vivaio ma, appunto, soltanto a parole. Di questo e non solo ne parliamo, come sempre, con Cristian Servidei.

IL NOSTRO CALCIO PER “BAMBOCCIONI”

di Deborah Mazzoleni

Si è spesso detto che la crisi e l’abbassamento del livello dei nostri campionati sono imputabili alla mentalità italiana, incapace di cambiare e di distaccarsi dal proprio passato. Mentre all’estero gran parte dei campioni in campo hanno poco più che vent’anni, in Italia è sempre più difficile trovare, nell’undici iniziale, un giocatore proveniente dal settore giovanile. Ne parliamo, come sempre, con Cristian Servidei.

Il calcio italiano sostiene di amare i giovani, ma non li fa giocare. Ne favorisce la scolarizzazione, li culla nei settori giovanili e li sfinisce nei tornei Primavera. Stiamo creando generazioni di bamboccioni anche nel calcio?
“Diciamo che nel calcio che conta (serie A e B) escono solo giovani veramente bravi ma in Italia ci sono campionati appositi per far maturare i giovani, vedi la Lega Pro. Il problema è che, già dalla giovane età, i nostri ragazzi subiscono la concorrenza degli atleti stranieri e molto spesso perdono per caratteristiche fisiche derivanti dallo sviluppo di razze eterogenee”.

La Juventus è costretta a sperare in qualche miracolo di Del Piero e puntare in difesa su Fabio Cannavaro. Il Milan affida le chiavi del gioco a Pirlo e Seedorf mentre la Roma dimostra, anche quest’anno, di essere Totti-dipendente. Hanno ragione a definirci un “campionato di pensionati”?
“I giocatori più affidabili sono sempre i vecchi ma è fondamentale che siano attorniati da un buon contorno di giovani. Ho detto buono, però!”.

E dire che in Italia le giovani promesse ci sono! Che cosa manca allora, la volontà o il coraggio di alcuni allenatori a schierarle in campo?
“Sono sempre meno le società che lanciano i giovani, contano i risultati e gli allenatori preferiscono sbagliare puntando sui vecchi piuttosto che avere rimorsi per aver provato un giovane. E’ la mentalità che è sbagliata, si spendono tutte le risorse per la prima squadra e sempre meno per il settore giovanile. Come possono migliorare i nostri giovani?”.

Durante l’estate molte società promettono di puntare sui giovani per poi ripiegarsi su stranieri, magari giovani, ma che sembrano avere più appeal rispetto al talento italiano cresciuto in casa. L’Italia calcistica ne esce sconfitta?
“Questa, secondo me, è una ragione fisica. Gli stranieri, soprattutto quelli di colore, a diciotto anni sono fisicamente pronti per il calcio vero mentre i nostri ragazzi sono indietro di un paio di anni”.

Attualmente nella Primavera l’età media dei ragazzi è intorno ai ventuno anni mentre un tempo il campionato era destinato agli under 19. Giocare tra “vecchi coetanei” non fa crescere e spesso quelli che dalle giovanili riescono ad arrivare alla Lega Pro non tengono il passo. Cosa c’è dietro questo atteggiamento attendista?
“I risultati! In più si è allungata la vita del calciatore, un tempo si smetteva al massimo a 30-32 anni mentre ora si arriva facilmente a 36-38 anni”.

Da noi a 23/25 anni si è ancora giocatori “giovani”, negli altri paesi dopo i 20 anni o si diventa titolari o si rimane riserve. Siamo molto protettivi o amanti di un gioco perfezionista dedito a interpreti maturi?
“Questo è diventato un calcio internazionale, europeo. Come in Italia arrivano molti stranieri, anche i nostri giocatori potrebbero tranquillamente fare delle esperienze all’estero, anche in giovane età. Poi, se meritano, posso decidere di rientrare in Italia o di rimanere a giocare all’estero. Si dice sempre che fuori dall’Italia il calcio è migliore!”.

Fra i titolari della nostra nazionale pochi hanno meno di 30 anni, tutti gli altri sono over. I giovani vanno bene solo nelle squadre degli altri?
“In Italia i giovani sono più scarsi e questo è dovuto al fatto che sempre più spesso si tende a trascurare il settore giovanile. In gran parte dei settori giovanili gli addetti o sono pagati con stipendi mortificanti oppure, nei casi peggiori, lo stipendio non lo ricevono proprio. Con questa prospettiva le motivazioni che invogliano gli addetti a istruire e seguire i futuri campioni sono davvero poche. Il discorso poi è molto vario, le cose da dire sono tante…”.

In Europa le nostre squadre hanno grosse difficoltà ad accedere alle fasi successive. Severo e unanime, il giudizio della stampa europea è stato impietoso: un calcio troppo vecchio e stanco per reggere il confronto con le corazzate inglesi e spagnole.
“Non sono d’accordo. L’Inter potrebbe andare in finale Champions League e gli ultimi mondiali li abbiamo vinti noi! Forse si riferiscono all’organizzazione e alla mentalità italiana e qui, in effetti, ci sarebbe molto da dire!”.

Alcuni importanti giocatori, tipo Totti e Del Piero, hanno con il proprio team un rapporto assolutamente viscerale. Finché continueranno a giocare sarà molto difficile che possa emergere e trovare il giusto spazio una seconda punta di valore. Sei d’accordo?
“Se sono i migliori è giusto che stiano in campo”.

Per concludere si può dire che questo calcio italiano ama i giovani solo a parole?
“Sì… come tanti altri problemi sociali che vengono risolti solo a parole”.

ATTORNO AL PALLONE. Tutte le facce del pallone di oggi. Mercato, borsa, stipendi, marketing, diritti televisivi: così va lo sport tuttora più amato dagli italiani. L’ex giocatore spallino dice la sua e non vede un futuro molto diverso. Purtroppo.

IL CALCIO NELL’ERA DEL BUSINESS SECONDO SERVIDEI

di Deborah Mazzoleni

Il calcio professionistico è ormai divenuto un enorme business. Trasferimenti da capogiro, stipendi milionari, società quotate in borsa, marketing, diritti televisivi e interessi economici spaventosi. Uno scenario così non può che nuocere allo spirito di questo sport che negli anni ha perso la passione che lo animava. Ne parliamo come sempre con Cristian Servidei

Per ottenere maggiori introiti, le società hanno visto aumentare il numero di partite giocate in maniera esponenziale. Ciò espone a infortuni e logorio fisico, non c’è la possibilità di allenarsi o di recuperare tra una partita e l’altra. Insomma non si tratta più di sana attività sportiva ma di una grande macchina economica?
“Sì, i livelli sono questi ma diciamo che, sia le società sia gli atleti, sono ben ricompensati per lo sforzo e l’impegno che il loro lavoro richiede”

La Champions League non è solo il sogno di molti tifosi ma un vero e proprio business colossale. Vincerla e intascare milioni di euro equivale a un affare del quale non ne beneficia solo il club ma l’intera città di appartenenza. L’indotto è immenso: diritti televisivi, incassi, merchandising, incremento degli sponsor e delle vendite dei biglietti. Un vero e proprio “show biz”, per dirla all’inglese, dove spettacolo e soldi sono garantiti…
“Questo è quello che viene richiesto dal mondo e poi viene dato. Non ci vedo niente di strano, il piacere di lottare e vincere un titolo è da sempre molto radicato tra i tifosi”.

Parliamo di televisione a pagamento. I due principali player del settore, Sky e Mediaset Premium, se da un lato rendono lo sport più visibile a tutti, dall’altro fanno perdere il contatto con lo stesso, con lo stadio, con il campo verde e ci privano di tutte quelle sensazioni uniche che solo un vero tifoso conosce.
“Con le televisioni satellitari e la nuova tecnologia si è aperto un mondo nuovo, molto diverso rispetto al nostro. Bisogna adattarsi, fra dieci anni i giovani tifosi non sentiranno la mancanza di queste sfumature, di queste belle sensazioni perché, per loro, il calcio vissuto così sarà la normalità”.

La smania del merchandising, produrre divise da vendere ai tifosi, ha ormai rovesciato le regole più elementari. Arbitri colorati come pennarelli, centravanti e terzini vittime del delirio creativo di qualche stilista rubato all’agricoltura. E’ ancora famosa la divisa dei Mondiali 2006 rimasta nei ricordi per gli aloni sotto le ascelle. Lo scopo, si sa, è fare soldi. Il pubblico si identifica ancora con i colori sociali che un tempo equivalevano alla bandiera ed erano intoccabili?
“Non so dirti ma di certo continuano a identificarsi con la squadra della propria città o Paese”.

I diritti televisivi per assicurarsi la trasmissione delle partite di calcio sono ormai un business dal trend in decisa ascesa, un modo per finanziare i club e le federazioni di calcio. Da anni le società calcistiche italiane negoziano i propri diritti televisivi ma è chiaro che i grandi compensi vanno alle squadre più blasonate e solide finanziariamente. Questa situazione aumenta le disparità fra grandi e piccoli club?
“Assolutamente sì…. Inevitabilmente in ogni trasmissione sportiva si parla quasi esclusivamente delle cinque grosse squadre del nostro campionato, quelle che hanno più tifosi quindi più ascoltatori!”.

Il mondo del calcio professionistico è stato più volte associato al traffico di minori. Bambini sudamericani o africani portati in Italia da procuratori senza scrupoli con la promessa di fuggire ad un misero destino, valutati e poi abbandonati se non conformi agli standard richiesti. Un business infame che richiede l’intervento e la collaborazione di tutte le società calcistiche non credi?
“Sono assolutamente d’accordo. Il fatto è che per qualcuno di questi ragazzi e per le loro famiglie, a volte, venire in Italia può essere una grossa opportunità per crearsi un futuro migliore”.

Alcuni grandi giocatori sono sempre più star televisive e meno calciatori. Invece di limitarsi a giocare in campo, vengono spesso associati a grandi marchi famosi o diventano i protagonisti del gossip quotidiano. Il calcio non fa più notizia per le rovesciate al novantesimo minuto e i salvataggi di testa sulla linea?
“Questo è quello che noi vogliamo vedere, la televisione e i giornali fanno leva su queste cose per ottenere l’attenzione di tutti. E’ provato che, fare indossare un paio di mutande a Beckham, incrementi le vendite… Quelli però che corrono a comprarle siamo noi!”.

Subito dopo il terremoto in Abruzzo era stato proposto di fermare il calcio per una settimana, in rispetto al dolore della gente colpita dal sisma. La Lega ha optato per un minuto di silenzio e il lutto al braccio dei giocatori, disputando le partite in un clima alquanto surreale. Ancora una volta ha prevalso il business?
“Queste sono scelte prese “dall’alto”, la Questura e la Federazione hanno grosse responsabilità in termini di sicurezza, quindi per rispondere a questa domanda bisognerebbe saperne di più”.

Ci si domanda se il calcio d’oggi, con il pallone imbottito di soldi, sopravviverà a se stesso e se sia possibile cambiare questo andazzo. Tu che ne pensi?
“Sono altre le assurdità “consolidate” che mi preoccupano maggiormente, quelle che sento tutti i giorni, da anni, al telegiornale…”.

ATTORNO AL PALLONE. Consigli, pareri, idee dell’ex giocatore spallino su una delle piaghe peggiori che affligge il mondo del calcio e più in generale dello sport non solo professionistico

IL DOPING SECONDO SERVIDEI

di Deborah Mazzoleni

Se ne parla poco, troppo poco. E intanto il fenomeno cresce in tutti i suoi aspetti più virulenti, nel calcio come negli altri sport. Una vicenda che viene spesso trattata con superficialità e insofferenza da molti addetti ai lavori. Ma evitare, glissare, ammorbidire in qualche modo il tema non ha impedito il verificarsi di una serie di casi attorno ai quali ruotano varie inchieste giudiziarie. Ne parliamo con Cristian Servidei.

Il calcio, come tutti gli sport, si è evoluto e ingigantito: sono aumentati gli impegni e le partite. La figura del giocatore diventa quindi centrale, bisogna giocare ad alto livello e recuperare prima. Esigenze di “spettacolo” che necessitano di un “aiutino”?
“Certo, oltre al riposo e a una buona alimentazione, in determinati periodi dell’anno il fisico dell’atleta necessita di un aiuto farmacologico”.

E’ stato più volte detto che il problema del doping non ha lo stesso impatto mediatico in tutti gli sport. Mentre nel calcio un grande campione che usa sostanze dopanti ma fa una grande partita è pur sempre un campione, nel ciclismo la positività è vissuta come un’infamia. Sei d’accordo?
“Sì! Ciò è dettato dal fatto che in alcuni sport la tenuta fisica è fondamentale rispetto alla qualità o all’estro che l’attività richiede, mentre nel calcio i due fattori si equivalgono. Nel calcio difficilmente ci si dopa ai fini del risultato ma più per vizi personali, ecco perché non è vissuta come un’infamia sportiva ma piuttosto personale”.

Durante una sua intervista in merito al doping, Michel Platini ha proposto di escludere categoricamente e senza possibilità di replica chi fa davvero uso di sostanze dopanti. E’ giusto?
“Non sono d’accordo! Molti giovani sportivi, con poca esperienza, si fidano ciecamente dei dottori e assumono sostanze spesso a loro sconosciute. Non ritengo sia giusto punirli con l’esclusione ma cercherei piuttosto di dare loro più informazioni in merito e spronarli ad avere maggiore cura del proprio corpo”.

Le norme sul doping non sono omogenee a livello internazionale. Alcune sostanze sono vietate in un paese e permesse in un altro. Un aspetto che crea molta confusione…
“Credo sarebbe più opportuno omogeneizzare le norme per lo meno a livello europeo, se non internazionale”.

La cocaina, dopo due giorni che si è assunta, è impossibile da rilevare nei controlli. Per riscontrarla bisogna fare l’esame del capello. Che senso ha allora fare le analisi ai giocatori dopo le gare?
“Queste droghe non aiutano a migliorare la prestazione di un atleta ma sono solo un handicap personale. I farmaci che servono a migliorare la prestazione fisica, analizzati dopo le gare, vengono riscontrati”.

Queste sostanze hanno effettivamente il potere di aumentare l’attenzione e la sopportazione fisica negli atleti o si tratta solo di un “effetto placebo”?
“Hanno realmente il potere di aumentare la sopportazione al dolore e alla fatica però è bene ricordare che per certe sostanze è condannato l’abuso e non l’uso, in quanto è considerato doping oltrepassare il dosaggio previsto dalla federazione e non l’uso sporadico”.

Le conseguenza dello scandalo doping hanno un duplice rilievo: sportivo e penale. Le pene previste vanno da multe salate, alla squalifica fino ad arrivare, nei casi più gravi, addirittura al carcere. Eppure si continua a fare uso di sostanze dopanti…
“Ognuno è libero di gestirsi come crede, l’importante è che questi abusi vengano condannati”.

Il doping non è soltanto slealtà e inganno verso gli avversari, lo è soprattutto verso se stessi. Imporre a un fisico sano l’assunzione di farmaci per migliorare una performance sportiva è un insulto al benessere. Cosa spinge un professionista a mettere in pericolo la propria salute al fine di rubare un risultato, ammesso poi che con il doping ci riesca?
“La fama e l’aspetto economico sono sicuramente le cause principali. Uno sportivo che fin da ragazzo fa sacrifici e arriva a un passo dal successo è inevitabilmente tentato. Un altro aspetto importante, secondo me, è l’incoscienza e la carenza di informazione delle dosi e dei farmaci dopanti che vengono assunti”.

Pensi ci sia un legame tra il doping e tutte le malattie degenerative di grande rilevanza come la SLA?
“Sembra che ciò sia stato testato”.

Un numero sempre maggiore di ragazzi e semplici frequentatori di palestre ricorre ai farmaci più che all’ allenamento per migliorare le proprie prestazioni sportive e il proprio aspetto fisico. Lo sport non è più gioco e divertimento?
“No, quando si vive lo sport in maniera così maniacale e smaniosa non si può più parlare di divertimento ma di fissazione!”.

La sensazione è che la risposta sia sempre la stessa: il mondo del calcio è troppo chiuso verso l’esterno, si vuol far finta che sia tutto bello e lindo ma… se si alzano i tappeti di sporco ce n’è tanto.
“No comment!”.

ATTORNO AL PALLONE. La ricetta dell’ex giocatore spallino che invita a sottolineare i meriti di certe curve e se la prende con i mass media.

IL RAZZISMO NEGLI STADI SECONDO SERVIDEI

di Deborah Mazzoleni

Da sempre gli stadi di calcio sono amplificatori di problematiche presenti all’interno della nostra società e razzismo e xenofobia, trovano spesso una loro espressione. I numerosi episodi di razzismo che negli ultimi anni si sono verificati negli stadi italiani, non solo di serie A e B, ma anche nei campionati minori, hanno raggiunto un livello e una diffusione smisurati. Sentiamo il parere di Cristian Servidei…

I recenti episodi di razzismo ai quali tutti abbiamo assistito, non fanno che confermare che il mondo del calcio ha bisogno di profondi cambiamenti al proprio interno. C’è chi dice però che non si tratti di vero e proprio razzismo ma solo di un modo come un altro di infastidire l’avversario. Tu cosa pensi?
“Non penso sia un modo di infastidire l’avversario. In campo, dove stress e istintività raggiungono livelli altissimi, può capitare di perdere il controllo, ma sugli spalti, soprattutto se la cosa è organizzata volutamente, è decisamente vergognoso! In ogni caso non giustifico e trovo assolutamente deplorevole ogni episodio legato al razzismo”.
Durante il campionato regionale umbro di seconda categoria, a causa di un grave episodio di razzismo verso un calciatore di colore nato in Italia, la società ha ritirato la squadra dalla partita. Un esempio da seguire?
“Direi proprio di sì, di fronte a gravi episodi come questo e, laddove la Federazione non tutela perché “the show must go on”, è giusto responsabilizzarsi individualmente”.
Il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha dichiarato che contro il razzismo negli stadi bisogna utilizzare la strategia della “tolleranza zero” invitando gli arbitri a sospendere immediatamente la partita al primo accenno di cori razzisti. E’ giusto dare agli arbitri questo potere?
“Darei più potere al commissario di campo perché è quello più attento al contesto generale della partita. Sono comunque d’accordo con questa iniziativa che riguarda gli arbitri”.
I fischi e gli insulti a Mario Balotelli non hanno ragione di esistere. Il suo atteggiamento in campo è decisamente indisponente ma questo non ha niente a che vedere con il colore della sua pelle. I provocatori nel calcio sono molti ma non tutti vengono trattati così….
“Beh, diciamo che caratterialmente un po’ se le cerca ma ciò non giustifica i cori razzisti nei suoi confronti, cori che, indirettamente, vanno a colpire anche altri suoi colleghi di colore”.
Fifa e Uefa sono divise circa le misure da adottare per combattere il razzismo. Se Michel Platini è propenso al procedimento disciplinare, Blatter si distanzia dicendo che non serve sospendere o sanzionare un club, crea solo maggiori tensioni, meglio penalizzarlo con i punti in classifica.
“Credo sia giusto dare degli esempi rigidi e punire severamente gli indisciplinati. Poi, chi di competenza, saprà quale è il modo migliore per farlo”.
E’ importante dedicare del tempo all’educazione e alla sensibilizzazione delle curve, non puntando solo il dito verso le più fanatiche, ma mettendo in luce quelle che si impegnano per ricordarci che un altro calcio è possibile?
“Assolutamente sì, è questo il punto di partenza per sensibilizzare i più indisciplinati”.
Vista l’aria che si respira nell’arena politica e nella classe dirigente del nostro paese, pensi che il clima politico italiano, di questi tempi, favorisca il proliferare del razzismo negli stadi e fuori?
“Non credo in maniera diretta ma più attraverso i media”.
Molto spesso i giornali sono veicoli, involontari, di violenza. Ritieni che il ruolo dei media sia fondamentale per calmare gli animi invece che istigarli?
“Hai toccato un tasto fondamentale! Proprio un mese fa, giusto a riguardo, il Papa ha detto: “I mass media amplificano il male e ci intossicano”. I media sono il male maggiore e dovrebbero cambiare radicalmente atteggiamento se vogliono calmare gli animi delle persone, giudicare per quello che realmente è, senza seguire il loro filone politico. A mio parere i media sono il vero male della società in cui viviamo”.
Hai mai assistito ad un episodio di razzismo in campo??
“Diverse volte ma sempre episodi non particolarmente gravi”.

ATTORNO AL PALLONE L’ex spallino affronta un tema caro ai tifosi e di grande attualità. Si tratta ormai di uno dei pochi business delle società calcistiche.

IL DEGRADO DEGLI STADI SECONDO SERVIDEI

di Deborah Mazzoleni

Sembra una telenovela senza fine: stadi italiani sempre più brutti e sempre più vuoti! Ogni anno puntualmente si devono fare i conti con partite sospese o rinviate a causa di condizioni metereologiche avverse e, quando queste sono ottimali, con impianti fatiscenti, male organizzarti e soprattutto spesso privi delle principali norme di sicurezza. Come al solito ne parliamo con Cristian Servidei…

A parte i pochi noti, la maggioranza degli stadi è di vecchia concezione, gli impianti sono obsoleti e incapaci di ospitare la gente con tutti i comfort.

“E’ una realtà e mi dispiace dirlo visto che sono un amante degli stadi in centro città e con tradizioni importanti. Gli impianti fatiscenti creano delle difficoltà alla sicurezza e sono molto dispendiosi per le società e i comuni. Sarebbe un bene, visto il periodo di crisi, sfruttare queste zone per l’economia cittadina portando le aree sportive in posizioni ben servite e con strutture all’ avanguardia”.

Alla Camera è stato proposto un disegno di Legge a favore degli stadi. A parte le infinite problematiche legate all’approvazione, nel disegno tralasciano le vere questioni legate allo sport e alle esigenze dei tifosi a vantaggio del business immobiliare. Cosa ne pensi?

“Bisogna valutare entrambe le parti con grande scrupolosità e competenza e operare nella maniera più opportuna, ponderando bene ma poi concretizzando velocemente a beneficio della comunità”.

Si vogliono privatizzare gli stadi, renderli capaci di finanziarsi da soli trasformando le arene in centri dedicati alle partite di calcio e ad altri eventi… Che ne pensi del progetto di accogliere all’interno attività come negozi, bar, ristoranti, centri commerciali?

“In altre nazioni questo progetto funziona molto bene ma in Italia gli esperimenti fatti hanno sempre fallito. Però è una buona idea sulla quale lavorare meglio”.

La Premier League offre immagini di prati meravigliosi, stadi pieni, riprese perfette e quant’altro. Hai l’ impressione che sia un “prodotto” con più appeal del nostro?

“Direi più organizzato e all’avanguardia del nostro”.

In Inghilterra e in Germania gli steward degli stadi hanno un potere diverso rispetto all’Italia. Mentre da noi hanno solo compiti di “raccoglimento, indirizzo” e di segnalazione, in altri stati hanno la possibilità di trattenere le persone ed, eventualmente, addirittura sottoporle al test alcolemico. Un’altra mancanza del nostro paese?

“E’ difficile definire così in due parole i compiti e i poteri degli steward negli stadi, è tutto il sistema da rivedere”.

In Italia gli stadi in grado di soddisfare gli standard internazionali sono pochi. E se l’Italia dovesse ottenere l’assegnazione per gli Europei 2016?

“Magari! Così ci diamo una bella mossa per risolvere il problema!”

La presenza massiccia dei tifosi allo stadio è uno spettacolo nello spettacolo, a volte anche più bello della partita! E’ un fenomeno destinato a finire?

“Mi auguro proprio di no. Sono convinto che il tifo negli stadi sia l’anima del calcio e l’attaccamento dei tifosi italiani, alla propria fede calcistica, sia unico”.

Che cosa ci puoi dire dello stadio Mazza e più in generale dei campi di Lega Pro?

“Solo i campi di Prima Divisione sono decenti. Vedere lo stadio Mazza a “mezzo servizio” è un po’ triste e mi auguro che a breve siano riaperti al pubblico i quindicimila posti modernizzati. Mi dicono che anche il terreno, da sempre un punto di forza, sia in difficoltà”.

ATTORNO AL PALLONE L’ex spallino ha idee chiare e invita a stare attenti che non crollino le fondamenta: “Bisogna salvare le società minori. Io dimezzerei la Lega Pro e tasserei i giocatori con i contratti più ricchi”.

LA CRISI ECONOMICA SECONDO SERVIDEI

di Deborah Mazzoleni

ll nuovo anno non porta buone notizie al mondo del pallone. Se nell’economia reale si parla di ripresa, nel mondo del calcio l’aria è ancora molto pesante e le società potrebbero affrontare grossi problemi economici e repentini cambi di proprietà. Anche al di fuori dei confini italiani la situazione non è delle più rosee. I presidenti continuano a spendere soldi per collaboratori competenti che tesserano giocatori che non sempre ripagano nel tempo gli investimenti effettuati e pochi di loro si preoccupano veramente delle conseguenze che questi investimenti possono avere sull’equilibrio economico delle società. Ne parliamo con Cristian Servidei.

C’è chi dice che la crisi in realtà non esista, che sia tutta una montatura…

“Per quanto ne so a livello di serie A e per metà serie B la crisi non si nota così tanto anche se il calcio non può più essere un investimento per i presidenti e le uniche risorse rimaste sono le tv e il settore giovanile (per chi lo capisce). Per il resto la Lega Pro è sempre meno sorretta dalle categorie superiori e sempre più vicina al dilettantismo, sia per l’aspetto economico sia, di conseguenza, per quello qualitativo”. 

Nei mesi scorsi Michel Platini, presidente dell’Uefa ha auspicato l’introduzione di norme a favore di un fair-play finanziario, che dovrebbe portare un po’ di etica in un mondo in cui i milioni girano senza tanti scrupoli. Che cosa ne pensi?

“Credo sia molto difficile perché in questo mondo finché ci si è dentro si cerca di mangiare il più possibile”.

Le cause della crisi le conosciamo tutti: stipendi troppo alti, pochi sponsor, caro biglietti e adesso anche il calo degli incassi televisivi. Pensi che le società, ormai spiazzate e incapaci di reagire, abbiano peccato di programmazione?

“Penso che le società più organizzate siano quelle che soffrono meno perché spendono esclusivamente il budget dell’anno, calcolano gli imprevisti e talvolta incassano per la vendita di un giovane del vivaio reinvestendo il ricavato”.

Gli sponsor sono in fuga e con loro anche i grandi campioni. Sono partiti Kakà e Ibrahimovic, è arrivato Eto’o… Un circolo vizioso dal quale sembra difficile uscire. E’ un  declassamento del campionato italiano?

“E’ normale che i giocatori forti vadano a giocare dove ci sono più soldi, hanno quindici anni per guadagnare e in questo momento in altre nazioni sta succedendo quello che è capitato in Italia dagli anni ’90 fino a cinque anni fa”.

Campionato di Lega Pro: la crisi è proporzionata o smisurata?

“Ritengo sia smisurata”.

Parliamo di Spal…

“Non so come si stia gestendo la società in questo momento di crisi”.

Parliamo di te, allora. Durante la tua lunga carriera calcistica ti è mai capitato di avere a che fare con società che annaspavano nelle difficoltà economiche?

“Per mia grande fortuna no.  Premesso che i migliori anni li ho disputati in periodi in cui la crisi non c’era, ho sempre cercato, nelle mie competenze, di valutare anche questo aspetto nella scelta della società per la quale andavo a tesserarmi”.

E cosa si può fare?

“Bisognerebbe innanzitutto dimezzare le società di Lega Pro (accontentare tutti è un grosso dispendio di energie) concedendo alle restanti un’esclusiva che permetta loro di ricrearsi e rafforzarsi “professionalmente” a 360 gradi.  Inoltre trattenere ai giocatori di serie A con contratti milionari una sorta di tassa, suddivisa a scaglioni, a favore di un fondo federale da devolvere alle società minori che si propongono concretamente seguendo una certa programmazione. I vivai e le serie minori sono le fondamenta del calcio, la serie A per il momento campa da sola! Se non ci sono le fondamenta prima o poi cade anche il tetto!”.

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